Omelia (02-06-2024)
Agenzia SIR
Commento su Marco 14,12-16.22-26

Mc 14,12-16.22-26

Il Vangelo proclamato nella solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo è costituito dal racconto dei preparativi e di alcuni momenti dell'ultima cena secondo Marco, ambientata nel primo giorno degli Azzimi (al tramonto del quale inizia la festa di Pasqua, collocata secondo il calendario ebraico nel giorno 15 del mese di Nisan).

La scena ricorda, con alcune variazioni, quella dell'ingresso a Gerusalemme (Mc 11,1-11), con un Gesù che preannuncia puntualmente gli eventi a venire, dimostrando di averne il dominio anziché essere in loro balìa: alla domanda dei discepoli su dove preparare la Pasqua, Gesù risponde inviandone due in città, dove incontreranno un uomo che porta un'anfora; dovranno seguirlo e riferire un messaggio di Gesù; quindi, nel luogo in cui l'uomo li condurrà, dovranno preparare la Pasqua. Tutto si svolge come da lui preannunciato, a conferma della sua attendibilità.

La selezione della liturgia omette le due drammatiche predizioni che precedono (vv. 18-21) e seguono (vv. 28-31) le parole sul pane e sul calice (vv. 22-25), ossia quelle del tradimento di Giuda e del rinnegamento di Pietro, ma nel racconto il contrasto è inevitabilmente fortissimo, enfatizzando che il traditore e il rinnegatore provengono proprio dal gruppo degli amici più intimi, quelli con cui Gesù vuole (v. 12) consumare la sua ultima Pasqua. Eppure, pur conoscendo i cuori e le intenzioni dei suoi, Gesù sceglie comunque di condividere anche con loro questa mensa speciale e di spezzare il pane e a distribuire il calice tra tutti i presenti.

Il Gesù delle due moltiplicazioni (Mc 6,30-44; 8,1-10), che ha spezzato e distribuito pani per migliaia di uomini e donne affamati, offre ora la chiave di lettura del senso della sua vita attraverso un gesto che chiarisce non solo il valore prolettico di quei segni (di cui si riprendono i tipici gesti e verbi di benedizione e distribuzione), ma anche la sua risposta alla domanda dei figli di Zebedeo (cfr. Mc 10,35-45), quando ha prospettato loro una misteriosa comunanza di calice con lui.

I vv. 22-26 sul pane e sul calice presentano tre momenti distinti, ben attestati nella tradizionale cena festiva ebraica: la benedizione e la distribuzione del pane (v. 22); il rendimento di grazie e il passaggio del calice (vv. 23-25); il canto dell'inno (verosimilmente la seconda parte dell'Hallel, v. 26). Rispetto alla tradizione, però, Gesù personalizza due momenti: dà da bere ai discepoli nel suo stesso calice (gesto attestato da tutta la tradizione sinottica), contro l'uso corrente di utilizzare ciascuno la propria coppa, e pronuncia una doppia parola interpretativa sul pane e sul vino, che trasforma radicalmente il senso della berakah ebraica e spiega il gesto alla luce del dono della sua vita. Come nel testamento di un padre, come nell'ultimo saluto di un amico, Gesù consegna ai discepoli la chiave interpretativa di ciò che è stato e di ciò che sarà e li rende partecipi delle sue attese escatologiche, di quel giorno del vino nuovo nella festa del Regno (v. 25). Quel calice, infatti, prelude ad un regno, come avrebbero voluto Giovanni e Giacomo, ma prima impone una via obbligata che passa per la sofferenza e l'assenza ("Questo è il mio sangue [...] non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno..."). È una prolessi in cui risuonano tutte e tre le predizioni della passione (Mc 8,31-33; 9,31-31; 10,33-34) e che trasmette angoscia, ma misteriosamente si carica anche di straordinarie promesse.

Celebrare il Santissimo Corpo e Sangue di Cristo significa allora rendere grazie per questa condivisione che giunge fino a noi, a distanza di migliaia di anni, grazie alla forza attualizzante della celebrazione eucaristica: è così che anche noi sediamo a quella mensa in un memoriale perenne e partecipiamo di quello stesso dono e promessa di vita piena, di festa senza fine.

Commento a cura di Annalisa Guida