Omelia (16-06-2024)
Paolo Curtaz
Germogli

Arriva l'estate.
Nuovamente. Le parrocchie si attrezzano con i campi estivi, chi può si programma un po' di ferie, le notizie che arrivano dal mondo sono sempre più cupe e sconfortanti.
E noi, teneri topoloni, attendiamo cieli nuovi e terra nuova in cui avrà stabile dimora la giustizia. E, nel frattempo, costruiamo il Regno. A piccoli passi possibili, direbbe Chiara Corbella.
Un po' come chi ha seminato l'orto e aspetta che il seme germogli e porti frutto.
Capaci di leggere il presente, costruendo il futuro.
La Liturgia, chiusa la lunga parentesi iniziata con la quaresima e finita quindici giorni fa con il Corpus Domini, si sostiene in questo discernimento: Marco ci regala una piccola parabola, una similitudine, un paragone, che solo lui riporta.
Tre piccoli versetti da mandare a memoria e da usare quando ci lasciamo prendere dall'ansia da prestazione (cristiana). Un potente ansiolitico interiore.
È il regno che viene, non sono gli uomini a farlo venire.
Non siamo un'azienda, siamo solo dei discepoli sgarrupati, che Dio rende essenziali.
Quindi: restiamo sereni. Keep calm. Soprattutto ora.

La falce
La piccola similitudine è divisa in tre parti e ha due protagonisti: il contadino e il seme.
Il primo compare all'inizio e alla fine e, volutamente, Marco ne sottolinea il ruolo assolutamente marginale e compie due sole azioni: getta il seme e manda (getta?) la falce.
Interessante: non semina ma getta il seme, come ad indicare un'azione non prevista, un campo non adibito alla semina, una scelta non pianificata, come a dire: getta il seme della Parola ovunque ti trovi, ogni luogo è da fecondare! E la seconda affermazione è ancora più curiosa, una specie di errore grammaticale: letteralmente Marco scrive, in greco, che il contadino manda la falce, non va nemmeno a falciare, qualcun altro, la falce!, se ne occupa.
Sappiamo che non è così semplice. Sappiamo che il terreno va accudito, irrigato, disinfestato dalle erbacce... ma il racconto vuole rimarcare la forza intrinseca del seme e l'apparente marginalità del seminatore.
Il secondo citato, il seme, è il vero protagonista del brano: mentre l'uomo dorme, lui germoglia, cresce, porta frutto. Gesù descrive quasi plasticamente la lenta azione del seme che buca la terra, si fa germoglio, cresce, si gonfia e si dona nel frutto.
Il contadino è inattivo, il seme no.
Al punto che, alla fine, è il frutto che stabilisce l'ora della mietitura. Letteralmente Marco scrive appena il frutto lo consente. L'uomo non fa, ma accoglie. E deve accogliere in fretta, subito.
È il frutto che fa tutto.
Il contadino non sa nemmeno come ciò avvenga, non se ne occupa, non ha il potere del controllo.

Fuor di metafora
Gesù, totalmente uomo, si interroga su quanto sta accadendo, sulla sua strategia pastorale. Determinato nel continuare la sua missione, si interroga sulle difficoltà che incontra.
E dice a se stesso, ai suoi discepoli, a noi, una cosa molto semplice: il regno di Dio è, appunto, di Dio. Non nostro. Ha una sua logica, una sua tempistica, una sua dinamica che, spesso, ignoriamo.
Come accade col seme.
La Parola seminata agisce anche se non ce ne accorgiamo. Ha tempi lunghi, certo, diversi dai nostri, ma agisce con forza e costanza. A noi rimane il compito di gettare il seme e di coglierne il frutto, subito, appena questi matura.
Gesù chiede di passare dalla logica dell'efficienza a quella dell'accoglienza.
Ahia.
Quante inutili ansie portiamo nel cuore! Proprio noi cristiani, noi discepoli che dovremmo, almeno un po', fidarci di Dio e della sua Parola!
Il ragionamento di Gesù è semplice ed efficace: il regno è di Dio, tu, assecondalo.
O, in altre parole, come ripeto spesso, fra il serio e il faceto: il mondo è già salvo, non lo devi salvare tu. Il mondo è già salvo, è che non lo sa.
Vuoi fare qualcosa? Vivi da salvato.

Per noi, oggi

Questa logica evangelica dell'attesa, della fiducia, caratterizza (o dovrebbe) la nostra vita comunitaria, ma anche la nostra vita interiore. La stessa pazienza che il Signore chiede nel lasciar agire il regno, la stessa fiducia che chiede di avere nella potenza della Parola, la dobbiamo avere verso noi stessi e i nostri percorsi di vita.
Come il terreno, cioè il nostro intimo, accoglie e fa crescere il seme è un mistero: inutile cercare di accelerarlo, inutile cercare di manipolarlo, è una questione fra Dio e l'anima, un evento intangibile nella coscienza del discepolo (cfr. Ap 3,20).

Il granello di senape
Ancora riflette, il Maestro, ed introduce l'ultimo enigma con una doppia domanda, come era in uso nei dialoghi dei rabbini per coinvolgere l'uditorio.
La parabola parla di una mutazione, di un cambiamento, di una evoluzione.
Perché quando si parla di Dio tutto si trasforma. È dinamico Dio, sempre più avanti di quanto di lui riusciamo a cogliere.
Usa questa splendida immagine servendosi con forza di un contrasto, che è il cuore della parabola.
Il protagonista della parabola è ancora il seme: a lui sono riferiti i verbi. È seminato, sale su, diventa un ortaggio, ramifica.
Ma al Signore piace giocare con gli opposti: il più piccolo dei semi diventa il più grande degli ortaggi, un vero albero, con grandi rami.
Ha ragione: il seme della senape, anche se non è il più piccolo in natura, come affermato, è comunque minuscolo: misura appena un millimetro di grandezza. Ma, sulle sponde del lago di Tiberiade, può crescere fino a raggiungere i tre metri di altezza.
Spettacolare.

La logica del regno
La Parola di Dio ha una sua efficacia, il seme germoglia e porta frutto, così l'annuncio del regno che avanza anche se non sappiamo bene come. Ma è una logica diversa da quella che ci immaginiamo. Parte dal poco, all'inizio è insignificante, piccolo come un granello di senape.
Ha un suo inizio e una sua progressione.
Gesù non parla di trionfalismi, non immagina grandi successi delle chiese, come a volte è stato interpretato goffamente questo testo, non sogna improbabili finali trionfanti da film.
Indica l'atteggiamento con cui annunciare il regno e la logica che lo accompagna: nelle piccole cose, nell'umiltà (che non è la depressione dei credenti ma la consapevolezza feconda del limite), dell'insignificanza dei gesti si cela la grandezza del regno.

E la chiamano estate.
Lasciamo fare a Dio. Lasciamoci fare. È tempo.