Omelia (30-06-2024) |
Paolo Curtaz |
Kum! È una storia di donne, quella che ci presenta Marco oggi. E di dolori. Di dolori irrisolti come la lunga e penosa malattia invalidante dell'emorroissa. Di dolori atroci come la perdita della figlia adolescente di Giairo. Una storia di approcci, di sguardi, di sfioramenti, di energie, di fede, di conversioni da operare. No, non abbiamo una risposta definitiva al mistero del male e della morte. Soprattutto del dolore dell'innocente. Ma abbiamo un Dio che quel dolore lo condivide e lo redime. Questo è venuto a raccontare il Signore Gesù. Questo abbiamo scoperto e raccontiamo. Giairo Marco, con abilità, intreccia due storie di sofferenza. Entrambe sono accomunate dalla presenza tutta femminile e dal numero dodici. Dodici sono gli anni della malattia della povera donna. Dodici gli anni della figlia di Giairo. Dodici, nella Bibbia, è il numero della pienezza come dodici sono i mesi dell'anno. Ci troviamo davanti a due dolori assoluti, compiuti, travolgenti. Marco pone il lettore davanti a due fra le grandi paure della nostra vita: la malattia che ci taglia dalla vita di relazione e la morte improvvisa nel pieno della nostra attività. Giairo è uno dei responsabili della bella e grande sinagoga di Cafarnao. Per la precisione è uno di quelli che si occupano di scegliere i lettori e di coordinare la liturgia. Non è uno qualunque, è uno che prega, un credente, un pio, un devoto. Uno impegnato nella fede, che investe molto nella vita interiore e si rende disponibile. La sua devozione, la sua convinzione, le sue motivazioni profonde vacillano davanti alla figlia esanime. È che è allo stremo, dice Marco. Luca e Matteo tolgono questo particolare, dandola per morta. L'unica cosa che può fare Giairo, interiormente sfinito, è gettarsi ai piedi del Maestro. Non ne può più, non sa come uscirne, non ha soluzioni. Allora si mette in ginocchio come chi mendica. Come chi chiede. Non sa più nulla. Non sa più se crede. Chiede per lei che sia salvata e viva. Salvezza e vita. Le due dimensioni essenziali dell'esistenza umana. Gesù si muove, c'è urgenza. Ma accade qualcosa di imprevisto: una donna chiede la guarigione, ruba un miracolo. E questo rallenta il corteo. Anzi, Marco sembra insinuare il dubbio che la causa della morte della ragazza abbia a che fare col colpevole ritardo di Gesù. Dramma fra poveri: chi guarire per primo? Chi ha diritto al miracolo? Timidezza Il sangue è vita, chi perde sangue muore. Il flusso mestruale è misterioso, quindi, meglio starne alla larga. Una donna mestruata è impura non va toccata. L'emorroissa non riceve un abbraccio da dodici anni, di che morirne. Ma ha paura, sa che toccando il rabbì lo renderà impuro. Tenera. Ma osa. Almeno il mantello, almeno sfiorarlo. E accade. Non è lei a rendere impuro il Signore, è lui a renderla pura. E se ne accorge. Chiede chi è stato. C'è ressa, che domanda scema è? Tutti lo toccano. Una sola lo sfiora. Ne prende l'energia vitale perché ci crede, perché mendica, perché elemosina. Possiamo frequentare Dio per anni senza mai guarire. Scusate il disturbo Arriva qualcuno che prende da parte il povero Giairo. Poca diplomazia, nei suoi confronti. La ragazza è morta, lasci stare il Maestro. Letteralmente Marco usa un verbo che significa scorticare, sfinire..., non sfinire il Rabbì, dicono. Una crudezza e un atteggiamento che lasciano stupiti e che ritroveremo più avanti. Che c'entra, ora, il disturbo al Maestro? Siamo davanti al dramma di una ragazza morta e ci formalizziamo? Che idea c'è di vita, di morte e di Dio dietro questa sconcertante affermazione? Il nostro è un Dio che vuole essere importunato! Che chiede al discepolo di insistere! Che vuole venire nelle nostre case a renderci visita! Dalla casa sono venuti a dire a Giairo di rassegnarsi. Gesù, contraddicendo questo parere, chiede a Giairo di fidarsi. Lotta Ora il gioco si fa duro. Da una parte la folla rumorosa che assale Gesù, la devozione fanatica ed esuberante che gli impedisce di operare. Dall'altra la necessità di ricavarsi uno spazio, di operare una selezione. Seguire Gesù, diventare discepoli è qualcosa di diverso dal seguire l'onda della folla. Gesù lo sa bene. Tre fra i discepoli possono seguirlo. Perché devono essere due o tre i testimoni, come stabilisce la Scrittura (Dt 19,15). Gesù annuncia la buona notizia zittendo i vicini che si disperano: ora sono loro a non doversi disturbare. La bambina non è morta, dorme, inutile strepitare. Lo fa con una gentilezza disarmante, con una fede incrollabile. Mi immagino lo sguardo perplesso del padre. Dorme? Che significa? Dorme, certo. È una professione di fede vera e propria, un invito a credere contro l'evidenza. Entra in casa. Alzati! Prima il gesto, poi la Parola. Prima la tocca, poi le parla. Dio sempre ci tocca, prima di parlarci. Attraverso mille piccoli segni, piccole attenzioni, piccole sfumature che solo uno sguardo di fede è in grado di cogliere. Dio ci accarezza con delicatezza e garbo. E il Verbo parla. Un vezzeggiativo, ragazzina, e un ordine: kum! E usa l'aramaico, la lingua usata al suo tempo. Non l'ebraico, la lingua del sacro. O il latino, la lingua dell'impero. O il greco, la lingua commerciale. Ma la lingua materna, quella imparata in casa. Dio ci parla sempre con un linguaggio che siamo capaci di capire. E ci ordina: kum! Alzati! O, meglio ancora: sorgi! Per me Gesù è colui che dona la vita, sempre. La fede che Giairo deve coltivare nonostante l'apparenza. E nonostante la folla che lo porta lontano dal Signore. La guarigione riguarda la bambina, certo, ma anche la famiglia della bambina e la folla. Una guarigione da una visione della morte catastrofica e definitiva. Gesù, invece, fornisce una lettura completamente diversa riguardo alla morte. Non come evento definitivo ma come passaggio. Vedo in quella bambina l'immagine dell'anima che porto in me. Anima in senso teologico, ma anche psicologico. L'anima è la parte più profonda, delicata e autentica che porto in me. E che, spesso, mortifico. Distrazione, negligenza, scoraggiamento, peccato, la portano alla soglia della morte. Allora, proprio allora, Gesù mi prende per mano e mi intima: Talithà kum!
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