Omelia (28-06-2024) |
Missionari della Via |
Il Vangelo di oggi ci parla dell'incontro di un lebbroso con Gesù. In quel tempo la condizione di un lebbroso era quella di un escluso dalla città, costretto a stare fuori dal centro abitato, fuori dalla comunità dei credenti, considerato punito da Dio a causa del suo peccato; un uomo dunque destinato alla solitudine a causa della sua condizione. Ora, anche noi siamo in un certo modo ammalati di lebbra. Certo, non siamo puniti da Dio ma di sicuro spesso soffriamo e facciamo soffrire a causa dei nostri peccati. Anche noi abbiamo le nostre malattie dell'anima, i nostri vuoti esistenziali, le nostre ferite. Siamo cresciuti con parole cattive nel cuore: "sei un buono a nulla... non ti realizzerai... hai sprecato la tua vita.... sei nulla in confronto agli altri... sei cattivo". Magari abbiamo pensato male anche di Dio, pensando che non gli importasse nulla delle nostre sofferenze. Invece questo lebbroso ci insegna l'audacia, il desiderio di guarire, la preghiera, la fiducia. «Ed ecco, si avvicinò a Gesù un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». La richiesta di quest'uomo è una preghiera: supplica il Signore prostrandosi. Davanti a ciò, il Signore Gesù non rimane certo impassibile, anzi: annulla la distanza, lo tocca e lo purifica. Il Signore lo tocca, lo ama nella parte più puzzolente, infima, inavvicinabile. Ecco, anche a noi il Signore ci ama in quella zona oscura, malata, dove nessuno si avvicina. È facile essere amati quando si è belli e buoni, ma molto meno quando si è "lebbrosi". Nel nostro esame di coscienza, cerchiamo di capire quale è la nostra lebbra, quali sono i peccati, le ferite, le paure che ci impediscono di aprirci alla vita, al prossimo e a Dio; e non perdiamo la speranza perché da Cristo noi veniamo toccati ancor prima di essere amabili. La pienezza che Egli viene a portare nella nostra vita, non è solo una carezza o una parola, ma è pienezza, è vita nuova. «Amare non è solo dare al povero qualcosa del nostro superfluo, ma ammetterlo nella nostra vita. Bisogna riconoscere con coraggio che con degli alberi di Natale non si risolverà la questione sociale, né il problema della fame e della lebbra. Il povero, il perseguitato, il malato, ha una sete confusa di ritrovarsi, di avere coscienza che è un uomo come gli altri e che ha il diritto di vivere e il dovere di sperare. Non accontentarsi quindi di lasciargli cadere in mano l'offerta, ma condividere la sua sofferenza, la sua ira, i suoi desideri, ed ammetterlo alla conoscenza dei nostri sentimenti: questo vuol dire amarlo... Che il buon Dio ci dia delle noie, se queste noie ci conducono sul cammino dei nostri fratelli. Che ci faccia la grazia di essere angosciati dalla miseria universale, in modo che noi, gente terribilmente felice, possiamo chiedere scusa della nostra felicità (se l'abbiamo), imparando così ad amare» (Charles Folleraux). «Si narra che il re S. Luigi IX, un giorno disse pubblicamente che avrebbe preferito trenta volte essere lebbroso piuttosto che cadere in un solo peccato mortale. Al che il barone di Joinville, presente, ribatté inorridito che lui preferiva l'opposto. Rievocando il fatto, il poeta Péguy commenta: "Ah se Joinville con gli occhi dell'anima avesse veduto cosa sia la lebbra dell'anima che chiamiamo non invano peccato mortale... quella muffa secca dell'anima infinitamente più cattiva, più pericolosa e maligna, infinitamente più odiosa, lui stesso avrebbe capito quant'era assurdo il suo discorso e che la questione non si pone nemmeno. Ma non tutti vedono con gli occhi dell'anima" (R. Cantalamessa). |