Omelia (30-06-2024)
don Alberto Brignoli
Spazio alla Vita!

La mentalità corrente nella nostra società basa tutto quanto sull'apparenza, sull'immagine. È sintomatico che il social più diffuso e più antico tra quelli in uso attualmente abbia un nome traducibile con "libro di facce", e potremmo benissimo tradurlo con "libro di facciata", perché ciò che conta è l'immagine, l'apparenza, ciò che si vede. E ciò che è visibile agli occhi dev'essere all'apparenza efficiente, bello, gradevole, perfetto, senza difetti di sorta.
"All'apparenza", per l'appunto, e non "nella sostanza": ciò che appare, ciò che si vede o si vuol far vedere agli altri di noi stessi deve essere "piacevole, gradevole e perfetto". Ciò che invece si è realmente, ciò che si è "nella sostanza", ossia quello che c'è dentro la persona, può anche essere pieno di magagne, di immoralità, di scorrettezze e di disonestà, ma questo poco conta, perché in apparenza nessuno lo vede e perché - ci si giustifica spesso così - "quello che uno fa o quello che è nel privato, è un problema suo", l'importante è che non appaia pubblicamente. Quello che, invece, c'è nella sostanza e nel cuore di una persona non appare all'esterno, per cui non "influenza" l'opinione pubblica, non fa "marketing". Essere efficienti significa "rendere" da un punto di vista economico: e tu puoi "rendere" solo se sei capace di vendere un'immagine di te che poco importa se non corrisponde alla realtà, l'importante è che appaia come bella, proficua ed efficiente.
Ma l'efficientismo, il culto dell'apparire perfetti, pieni di vitalità e di potenzialità elevate all'infinito, si scontra ed entra in profonda contraddizione con quella che è la realtà della vita umana. Il mito del "bello, perfetto ed efficiente" (antichissimo, se pensiamo ai "belli e buoni" dell'antica Grecia) va costantemente a sbattere la testa contro il muro della quotidianità, fatta di limiti, di imperfezioni, di sofferenze, di malattie e - in definitiva - di morte. Sofferenze, malattie e morte che fanno male, soprattutto quando debilitano per lungo tempo (come nel caso emblematico della donna del vangelo, affetta da dodici anni di emorragie, sia fisiche che economiche) o quando colpiscono l'uomo nel fior fiore della sua efficienza e della sua giovane età, come nel caso della figlia di Giairo.
E il muro del male e della morte, entrato nel mondo - secondo quanto dice il libro della Sapienza nella prima lettura - a causa della disobbedienza dell'uomo che voleva pretendere di essere come Dio, è qualcosa contro il quale ci sbattono tutti, chi in maniera più serena, chi in maniera più drammatica: gente comune e gente nota, Vip e semplici uomini della strada, ricchi e poveri, signorotti e poveri diavoli. Perché tutti siamo, allo stesso tempo, un po' sani e un po' malati. Sani da morire, ma malati di vita.
Grazie a Dio, c'è chi alla vita crede e continua e credere non perché lotta contro la morte e la malattia in un disperato tentativo di essere sempre "più sano e più bello", e quindi più "appetibile" agli occhi del mondo, ma perché sa che l'uomo ha una dimensione più profonda e più sincera del puro apparire, che va ben oltre la malattia e la morte e che addirittura riesce a sconfiggerle. Non le elimina affatto, ma contro di loro continua a giocare alla partita della vita. E tra l'altro, vince sempre.
Perché sa che c'è un Dio che può ridare vita anche solo imponendo le mani; perché sa che c'è un Dio che semplicemente lascia che a toccare il suo mantello sia un'umanità che cerca e ottiene vita; perché sa che c'è un Dio che è sollecito nei confronti dell'uomo e va in cerca di lui anche quando la società vorrebbe schiacciarlo, metterlo ai margini, ridurlo a un numero qualsiasi all'interno della folla; perché sa che c'è un Dio che si ostina a credere nella vita anche quando "sarebbe meglio non disturbarlo più" perché non c'è più nulla da fare, anche quando tutti lo deridono e si prendono gioco di lui perché insiste a voler prendere per mano e far rialzare verso la vita chi apparentemente giace nell'ombra della morte.
Ma questo Dio, che è signore e amante della vita, esige dall'uomo fede in lui e nella vita, non vuole inutili perdite di tempo verso apparenti segni di efficienza e di bellezza. Questo Dio, come dice Isaia, "non ha bellezza né apparenza", perché è "l'uomo dei dolori che ben conosce il patire": ma è proprio da queste "sue piaghe" che "siamo stati guariti".
Perché le sue piaghe, in fondo, sono pure le nostre. Ed è questo che ci dà la salvezza: la sua condivisione con il nostro dolore e la nostra morte.
E in forza della sua condivisione con il nostro dolore e i nostri quotidiani sacrifici, egli ci aiuta a capire che la vita vera non passa attraverso una frenetica ed esasperata processione ai centri di chirurgia estetica, alle palestre, ai centri fitness, o davanti alle telecamere del reality di turno, né attraverso selfie fatti assumendo le facce e le posizioni più ammiccanti possibili, pur di "apparire".
La vita vera è quella che va alla ricerca di ciò che conta, alla ricerca del Maestro, a volte spingendo per farsi spazio tra la folla; è condividere come lui e insieme con lui le sofferenze umane; è riempirle di eternità, è ridare loro la speranza che spesso hanno perduto correndo dietro alla stupida moda dell'essere "visibile a ogni costo".