Omelia (14-07-2024)
don Alberto Brignoli
Senza pretese

Essere annunciatori del messaggio di speranza che viene dalla Parola di Dio potrà anche essere una specie di privilegio, per chi ne è incaricato; ma prima di tutto è un compito arduo, perché non comporta onori, benemerenze, reverenze e riconoscimenti come forse si è tentati di pensare. Consacrare la propria vita all'annuncio del Vangelo - anche se agli occhi di molti, anche cristiani, spesso viene visto come il rifugio in un mondo ovattato nel quale si fa poco o nulla - il più delle volte comporta contrasti, difficoltà, fatiche, forti incomprensioni: soprattutto quando il messaggio che si porta è di denuncia contro atteggiamenti di ingiustizia e di sopruso nei confronti dei più deboli, quando si entra in contrasto con un modo di intendere la vita che non corrisponde ai disegni di Dio.
Si diviene testimoni scomodi, come scomodo è stato, nell'Antico Israele, il profeta Amos. Originario del Regno di Giuda, del Sud, viene mandato da Dio a predicare la sua parola e a denunciare gli atteggiamenti di corruzione nel Regno del Nord, il Regno di Israele. Figuriamoci se viene accolto bene (pensiamo la cosa nel nostro contesto italiano, e ci accorgeremo di quanto ci troviamo anche noi immersi in questo atteggiamento...): viene insultato dalla classe dirigente, soprattutto dai sacerdoti del santuario di Betel, che lo vedono come un opportunista, uno che va in cerca di fortune, di potenti protettori a cui può dare una mano nella loro lotta politica contro il potere costituito. E non usano mezzi termini, come abbiamo ascoltato nella prima lettura: "Vattene, veggente, nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare". Qui no: qui non abbiamo bisogno di mercenari della Parola di Dio, abbiamo il nostro santuario, abbiamo il nostro re, le nostre leggi, il nostro stile di vita, il resto ci avanza tutto.
Ma Amos è ben cosciente di non essersi cercato nulla, di non aver inventato nulla di testa sua, e soprattutto di non essere andato a mendicare pane da nessuno. Quello che sta facendo non è sua iniziativa. Lui stava bene dov'era: non era assolutamente nato come profeta, non ha avuto una formazione profetica, niente a che vedere nemmeno con le scuole di pensiero dell'epoca. E non può nemmeno vantare una nobile stirpe, alle sue spalle: era un pastore, un coltivatore di piante desertiche, i sicomori, che gli Egizi usavano per costruire i sarcofagi...quindi non proprio una pianta nobilissima. Diciamo che, come ogni nomade, viveva alla giornata, di ciò che poteva dargli sussistenza. Tuttavia, ha risposto a una chiamata, ha dato retta alla voce di Dio, e ha iniziato a parlare in suo nome. Fosse stato per lui, ne avrebbe fatto volentieri a meno: chi si mette a fare il testimone, il profeta, l'annunciatore di misteri della salvezza e di valori grandi, sapendo bene che tutte queste cose non procurano se non fastidi senza fine?
Eppure, non riesci a dire di no... quando Dio chiama, è difficile resistere. E questo vale per tutti: per un pastore di Tekoa come Amos, per un pescatore della Galilea come Pietro, per un esattore delle tasse come Matteo, per una donna di mille amori e di sette demoni come Maria Maddalena, per un rabbino integralista come Paolo di Tarso. Tutti quanti chiamati, presi così com'erano, e mandati ad annunciare, ognuno nel proprio ambiente, il messaggio di salvezza.
Detto così, pare semplice. Rimane, però, un problema, che non dev'essere di scarsa importanza, visto che Gesù vi dedica quasi la metà del discorso riportato dal Vangelo di oggi: ovvero, che questo annuncio non trova grandi adesioni e di solito non riscuote enorme entusiasmo.
Oggi come allora, al tempo di Gesù come al tempo di Amos, il messaggio dell'uomo di Dio, del testimone della giustizia, del profeta di speranza, non viene accolto con entusiasmo da tutti. Lo vediamo in tanti uomini e in tante donne di Chiesa, anche a livelli molto alti nella gerarchia, che, quando tentano di entrare "a gamba tesa" su alcuni temi che toccano gli interessi dei più potenti, cercando di denunciare emarginazione e povertà, subito vengono tacciati di "socialismo ecclesiale", di svilimento del Vangelo, di desacralizzazione della fede...
Entrare nelle case degli uomini, rimanere a loro fianco, calpestare la polvere delle loro strade, condividere le loro vicende umane è un imperativo categorico, è un compito ineludibile di ogni cristiano. Guarire i malati, scacciare i demoni, invitare la gente a cambiare mentalità su Dio; questo è quello che il Maestro ci chiede di fare, e non ce lo chiede per la nostra bella faccia o per i nostri tanti o pochi meriti. Ce lo chiede perché ce lo chiede, perché questa è la sua volontà.
Ma ce lo chiede anche con quel sano realismo di chi sa che la Parola di Dio è efficace nella misura in cui incontra un terreno disposto ad accoglierla e a farla crescere. Insistere a voler rimanere in un posto, in una casa, in un villaggio, affinché tutti si convertano e credano al Vangelo, non ha alcun senso, e non è ciò che il Maestro ci chiede.
Occorre avere un sano distacco dalle cose e dalle situazioni, tale per cui, se la Parola non viene accolta, non ha senso insistere. Volere a tutti i costi che la gente aderisca al messaggio cristiano, a volte con un'insistenza che ottiene l'effetto contrario; pretendere che tutti gli altri credano nello stesso modo in cui noi crediamo; attaccarsi alle persone per sperare di ottenere un successo personale, è come volere a tutti costi che la polvere che calpestiamo rimanga - come dice Gesù - attaccata sotto i nostri piedi.
La polvere è il nulla, è inconsistente, e da essa ci dobbiamo staccare, così come dobbiamo staccarci dalla pretesa di ottenere successi personali dalla nostra testimonianza cristiana: preoccupiamoci solo che la gente, un giorno, anche grazie alla nostra testimonianza, attacchi il proprio cuore al cuore di Dio.