Omelia (11-08-2024) |
diac. Vito Calella |
Attratti da Dio Padre, assumiamo con fede il mistero dell' incarnazione «Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato. E io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Gv 6,44). È necessario che ognuno di noi sia attratto dal modo in cui agisce Dio Padre. Cosa c'è di così attraente, pensando a Dio, nostro Padre? Cos'è che ci lascia più stupiti? È il suo prendersi cura della nostra situazione di povertà, di scoraggiamento e perfino di depressione. È anche la sua appassionata pazienza di fronte alle scelte ostinate della nostra libertà. Il più delle volte agiamo solo per soddisfare i nostri istinti, sentimenti e pensieri egoistici, dimenticando la saggezza dei suoi comandamenti e promuovendo rapporti conflittuali e mancanza di rispetto per gli altri, perché difendiamo il nostro "io" con la ricerca del piacere immediato che usa e abusa degli altri, con l'aggressività di voler dimostrare che abbiamo "potere" sugli altri e con atteggiamenti di sfiducia e paura verso chi sembra più forte e potente di noi. Di fronte ai nostri peccati e ai nostri fallimenti, siamo attratti dalla misericordia e dalla fedeltà di Dio Padre, perché non perdiamo mai la nostra dignità di figli amati, e, di fronte alla povertà radicale dei nostri fallimenti e dei nostri peccati, Dio Padre ci offre sempre l'opportunità di ricominciare da capo per avere una nuova vita. Ed ogni esperienza di conversione diventa un assaggio parziale della pienezza della vita eterna che avremo dopo la nostra morte fisica. Oggi siamo attratti dal "prendersi cura" di Dio Padre per il profeta Elia. Elia era stato troppo zelante, uccidendo i trecento sacerdoti di Baal nel nome di Dio (cfr. 1Re 18,40). Ciò avvenne dopo l'efficace dimostrazione del sacrificio da lui offerto al Dio d'Israele, sulla cima del monte Carmelo, in concorrenza con lo stesso rito, completamente fallito, offerto al Dio Baal dai sacerdoti di questa divinità pagana (cfr. 1Rs 18,15-40). Nonostante quel successo e la meraviglia della pioggia (cfr. 1 Re 18,41-46), Elia non ottenne il sostegno popolare e, minacciato di morte dalla regina Gezebele e dal re Achab, fuggì attraverso il deserto, da solo, e cadde in una grande depressione. Voleva morire nel deserto e concludere la sua missione profetica nella povertà radicale della sua condizione di depresso. Tuttavia siamo attratti dalla bontà divina: Dio non abbandonò Elia. Per mezzo di un angelo gli offrì «una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d'acqua» (1Re 19,6a). Mangiò e bevve due volte e «con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb» (1Re 19,8). Oggi siamo attratti dalla pazienza di Dio Padre con noi, perché facilmente soffochiamo il dono dello Spirito Santo con cui Egli ci ha già segnati. «La speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5,5). «Lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza. Perché non sappiamo cosa chiedere né come chiedere; è lo Spirito stesso che intercede per noi, con gemiti ineffabili» (Rm 8,26); Spesso «contristiamo lo Spirito Santo con il quale Dio ci ha segnato come suggello per il giorno della redenzione» (Ef 4,30). Abbiamo già celebrato i sacramenti dell'iniziazione cristiana, ma il nostro egoismo prevale, «soffochiamo dentro di noi lo Spirito Santo» (cfr. 1Ts 5,19), ed «ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31). L'ideale di essere «benevoli gli uni con gli altri, misericordiosi; perdonandoci a vicenda, come Dio ci ha perdonato in Cristo» (Ef 4,32); di essere «imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminare nella carità» (Ef 5,1), diventa un'utopia, cioè una pratica di vita mai pienamente realizzata, a causa della povertà della nostra condizione umana, e perché siamo costantemente condizionati dalla mentalità pagana, edonistica, materialistica e individualistica della nostra società moderna. Essere cristiani significa andare "contro corrente" rispetto alle proposte di questo mondo! Tuttavia, Dio Padre ha molta pazienza. Nonostante i nostri peccati e le nostre incoerenze, Egli non rinuncia al suo progetto d'amore. Perciò, quando arrivò il momento opportuno, Dio Padre, «ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Siamo attratti da Dio Padre sopratturrio perché ha realizzato lo scandaloso mistero dell'incarnazione del suo amato Figlio, Gesù di Nazareth! Il nome di Dio è «Io sono colui che sono» (Es 3,15). La santificazione del suo nome avviene quando l'essere umano, nel buio del tunnel delle sue miserie materiali, delle sue dipendenze fisiche e psicologiche, delle sue azioni egoistiche e malvagie, non si sente abbandonato da Dio e ha la speranza della salvezza. E questa speranza di salvezza è garantita dalla missione del Figlio unigenito del Padre, il quale «ha avuto compassione delle nostre debolezze, perché anche lui è stato provato in ogni cosa come noi, eccetto il peccato» (Eb 4,15). L'attrattiva principale di Dio Padre è la manifestazione della propria divina debolezza rivelata nel mistero dell'incarnazione! Ciò era scandaloso nella mentalità religiosa degli ebrei! Era una bestemmia! Non si poteva accettare di credere in un Dio che si abbassasse al livello della condizione umana. Lo si vede nel vangelo di oggi, poiché l'evangelista Giovanni denuncia la mormorazione dei giudei, di fronte allo scandalo del mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio: «I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: "Io sono il pane disceso dal cielo". E dicevano: "Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: ‘Sono disceso dal cielo'?" Gesù rispose loro: "Non mormorate tra voi"» (Gv 6,41-43). Perseveriamo nel contemplare il mistero dell'incarnazione, senza mormorare, ma scoprendo che la Parola di Dio nell'Antico Testamento converge su questo evento! Cristo risuscitato, con il linguaggio dell'evangelista Giovanni, ci invita a rafforzare la nostra fede nel mistero dell'incarnazione del Figlio, ricercando l'insegnamento che viene dall'ascolto orante di tanti testi profetici dell'Antico Testamento. La venuta del Messia, discendente di Davide, sacerdote, re e profeta definitivo, era stata annunciata in tante promesse e canti profetici. A titolo di esempio, basti ricordare le promesse messianiche del primo Isaia (cfr. Is 7,10-18; 9,1-6; 11,1-9); i quattro cantici del servo del Signore dal secondo Isaia (Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12); la promessa del buon pastore che sarà Dio stesso in Ez 34,1-16. Questo è il senso delle parole che abbiamo appena ascoltato: «Sta scritto nei profeti: "E tutti saranno istruiti da Dio". Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me» (Gv 6,45). Tutta la storia della salvezza e della creazione è centrata su Cristo Gesù, il Figlio di Dio, il volto umano di Dio, il volto divino dell'uomo. E l'evento principale e culminante dell'intera missione terrena di Gesù in questo mondo è la sua morte e risurrezione, come ricorda l'autore della lettera agli Efesini: «Egli ci ha amati e ha dato se stesso offrendosi a Dio per noi in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2). Gesù ha vissuto questa donazione totale di sé quando è stato crocifisso. Fu un sacrificio crudele, ma il soave odore dell'incenso ci ricorda la sua risurrezione per la sua fedeltà, fino alla fine, nella comunione con Dio Padre. La morte e la risurrezione di Gesù hanno portato a compimento definitivamente la nuova ed eterna alleanza di Dio con tutta l'umanità. La forza liberatrice di questo grande evento si rinnova ogni volta che mangiamo il corpo e il sangue di Gesù Cristo nelle specie del pane azzimo e del vino, celebrandoo il memoriale di quell'ultima cena, quando Gesù, prima di affrontare la passione, morte e risurrezione, istituì l'Eucaristia. Il vangelo di oggi termina cominciando a parlare del mistero eucaristico: «Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,50-51). Nel seguito del discorso «gusteremo e vedremo come è buono il Signore» (Sal 33,9) trovando «il nostro rifugio» nella Santissima Trinità, tutta presente nel mistero dell'Eucaristia (Sal 33,10). |