Omelia (11-08-2024)
don Alberto Brignoli
La fede dei nostri padri? No, la nostra fede!

Continua anche questa domenica la "catechesi" di Giovanni sull'Eucaristia, e il tema principale è quello del Pane di Vita. Quando Gesù dice di se stesso "Io sono il Pane della Vita" non può che suscitare il mormorio e la reazione dei Giudei, perché ogni volta che nella Bibbia si usa l'espressione "Io sono", ci si appropria indebitamente di un termine che solo a Dio era consentito utilizzare. "Io sono", infatti, è il modo con cui Jahweh si rivela a Mosè nel roveto ardente, e da allora in poi è considerato "il nome di Dio", che a nessun pio ebreo è consentito utilizzare, in quanto è ritenuta un sorta di bestemmia, di eresia, ovvero un tentativo di "appropriarsi" di Dio, di voler prendere il suo posto.
Ma c'è un particolare nelle letture di oggi che attira la mia attenzione. In almeno tre situazioni si fa riferimento alla figura dei "padri", intesi come coloro che ci generano non solo alla vita ma anche nella fede.
Nella prima lettura, Elia che fugge nel deserto per scappare dalla sete di vendetta della regina Gezabele dopo lo sterminio dei profeti di Baal sul monte Carmelo, chiede a Dio di poter morire di stenti perché stanco di lottare contro un potere che lo vuole morto, e lo chiede "perché non si sente migliore dei suoi padri".
Nel Vangelo, Gesù parla di sé come del Pane della Vita, e si paragona alla manna mangiata dagli Israeliti nel deserto, sostenendo che quello era un alimento limitato, capace, sì, di sfamare ma non di donare salvezza: e l'aggettivo con cui descrive il popolo nel deserto è "i vostri padri", riferito ovviamente ai suoi interlocutori.
In mezzo, proprio all'inizio del brano di Vangelo di oggi, si trova il mormorio dei Giudei, i quali, non accettando il fatto che Gesù ha utilizzato per se stesso l'espressione "Io sono disceso dal cielo", gli ricordano le sue origini, umane, umili, senza alcuna pretesa di superiorità o di origine divina. Gli ricordano, in definitiva, da quale storia proviene e in quale storia si trova inserito: una storia dalla quale, spesso, non si può uscire e nella quale si rimane come ingabbiati, reclusi, senza alcuna possibilità di riscatto.
Non so se faccio una forzatura al testo, ma mi piace notare nel Vangelo di oggi una spinta da parte di Gesù in questo senso, ossia nella direzione di una ricerca, da parte di ognuno, della propria relazione con Dio, vissuta certamente nel solco di un tradizione ricevuta, la quale però non deve diventare una giustificazione di fronte alla nostra mancanza di volontà di progredire nel cammino della fede. Come se stessimo dicendo, cioè, "questo è ciò che ho ricevuto dai miei padri e da chi mi ha educato nella fede: io sono così, non posso farci nulla". Ed è un atteggiamento pericoloso, perché può portare - e di fatto porta - a due diversi atteggiamenti, che si verificano spesso anche tra i cristiani.
Un primo atteggiamento è quello di chi, non sentendosi responsabile di una fede ricevuta per tradizione dai propri padri attraverso il battesimo, arriva a un certo punto della vita a rifiutare la propria dimensione religiosa in quanto "imposta dalla famiglia e non scelta liberamente". E infatti, sentiamo spesso genitori che lamentano il fatto di aver educato i propri figli alla fede sin da piccoli per poi doversi arrendere di fronte alla totale indifferenza dei figli stessi verso le cose di Dio; e magari, sentendosi rinfacciare dai figli questa "obbligazione" alla vita di fede che poi provoca in loro una sorta di rigetto.
C'è poi un secondo atteggiamento, altrettanto frequente: quello di chi, partecipando magari anche assiduamente alla vita religiosa della comunità, non mette mai in discussione il proprio modo di vivere la fede, o non si interroga mai sul fattore religioso, perché "così l'ho ricevuto dai miei padri e così lo vivo". Che in linea di principio può anche essere una buona cosa: ma a lungo andare rischia di trasformarsi in una sorta di comodità spirituale, che - esattamente come l'atteggiamento precedente - porta a una totale dimissione di responsabilità. Come a dire: questa vita di fede non è mia, non mi appartiene, è cosa dei miei padri e io la vivo così come l'ho ricevuta; oppure, al contrario, la consegno alla storia e non me ne faccio nulla.
Ecco perché Gesù ribatte ai Giudei dicendo "I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti": per indicare loro che una fede che non si prende la propria responsabilità e non affronta il difficile ma esaltante cammino di un rapporto personale, convinto e deciso con Dio, è destinata a morire. "Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno", dice Gesù: dove questo "uno" richiama ancora una volta la necessità di una scelta personale di fronte alla chiamata di Dio.
"Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato": non ci si può, in definitiva, rivolgere a Dio solo perché inseriti in una storia che è così e non si può fare altrimenti. Se è Dio che ci chiama, a Dio dobbiamo rispondere, in maniera personale e coerente. Può anche essere una risposta negativa, d'accordo: Dio non ha mai obbligato nessuno a credere in lui, ognuno di noi è libero di farlo. Ma è proprio questa libertà che deve richiamare ognuno di noi alla responsabilità della propria fede. Nascondersi dietro "ai nostri padri", a una tradizione ricevuta, non solo è qualcosa di molto comodo, ma alla fine porta alla morte del nostro rapporto con Dio.
Chi invece, liberamente e in maniera coerente, crede in Gesù Figlio di Dio, sa di avere in dono la vita eterna: e non è una vita eterna da intendersi come "vita nell'eternità". A quella, ci penseremo: si tratta invece di una vita eterna nel senso della pienezza di vita, dell'intensità della vita, da vivere con forza e in pienezza finché Dio ce ne dia la possibilità. E nell'Eucaristia, abbiamo un pegno sicuro di questa vita piena.