Omelia (01-09-2024)
padre Gian Franco Scarpitta
Giù la maschera!

Osservare i Comandamenti e le prescrizioni della Legge (Thorà) era per il popolo ebraico determinante e irrinunciabile poiché ciascuna delle 613 prescrizioni era considerata dono di Dio proveniente dalla sua rivelazione, quindi eseguirla era lo stesso che rispettare la volontà del Creatore e Salvatore. Nessuno poteva fuggire alle prescrizioni della Legge e neppure alle interpretazioni e alla consuetudini e usanze che ne scaturivano e che erano elencate in altri testi come il Talmud. Il libro del Deuteronomio di cui alla prima Lettura descrive del resto, anche se in linea generale, come il Signore stesso, nell'imminenza dell'insediamento del popolo nella terra promessa, raccomandi agli Israeliti di essere fedeli alle norme e alle istruzioni che egli indica per il loro bene e in vista della felicità raggiungibile nella nuova terra, facendo intuire che di moniti e prescrizioni dovevano essercene parecchi.
Gli zelantissimi farisei, assai noti per essere maestri sapienti eruditi della Legge e delle varie prescrizioni, ma anche per non essere mai esemplari concretamente di ciò che andavano insegnando e predicando agli altri, rimproverano per questo motivo a Gesù che i suoi discepoli non osservano usanze e prescrizioni consolidate nel tempo dalla tradizione ebraica, non si attengono alle consuetudini tipiche del posto e della realtà in cui vivono, disattendono le comuni osservanze quali le abluzioni prima dei pasti, che non consistevano certo nell'odierna prassi di lavarsi le mani prima di sedersi a tavola: occorreva lavarsi fino al gomito e osservare altri particolari della pulizia. Critiche e contestazioni quindi da parte dei farisei verso coloro che "prendono cibo con mani impure", che non doveva essere concepito soltanto come "non lavate".
Citando il profeta Isaia, si intravede del resto che i farisei rimproverano in questo caso non tanto la mancata osservanza di comandi o prescrizioni divine, ma di consuetudini umane. Osservano cioè che loro tengono ai precetti di uomini anche indipendentemente dalla volontà di Dio; oppure fanno coincidere l'una e le altre cose.
Nella sua riposta in difesa dei suoi discepoli, Gesù distingue la "vera religione" da tutte le esteriorità che ne conseguono, osservando come l'ipocrisia del fariseismo induca a misconoscere la vera essenza di ogni comandamento, la sua vera identità e profondità, per soffermarsi solo sul suo dato esteriore. L'ipocrisia in effetti è un omaggio che la verità rende all'errore come diceva un autore ignoto e porta a legittimare ciò che in realtà è superficiale, banale e melense occultando ciò che in realtà andrebbe considerato determinante. E' questo che Gesù rimprovera: l'accanimento esasperato sull'esteriorità e sull'apparenza che porta a trascurare la vera essenza della volontà di Dio. A confondere la lode e la fede nella molteplicità delle usanze e delle normative, quando invece la vera religione risiede nella purezza del cuore, nell'amore sincero e spassionato verso Dio coltivato nell'intimo, che si dispiega nella concretezza della carità verso i fratelli. L'eccessiva attenzione verso il secondario è indice invece di una religiosità subdola e spesso solamente ostentata, che è ben lungi dal lodare Dio come si conviene e ancor meno dall'edificare il prossimo.
A che serve essere mondi, sfavillanti e rilucenti nel fisico, quando l'animo è marcio e corrotto interiormente? A che serve il perbenismo, la parvenza e l'ostentazione di sé quando nell'intimo albera la presunzione, l'orgoglio e la vanità? Proprio la coltura dell'esteriorità sottende spesso una malcelata ipocrisia, doppiezza e falsità, perché l'ostentazione porta a nascondere il sordido che alberga in noi, un po' come quando il profumo nasconde la sporcizia.
C'è chi teme le galline, ma di notte le va a rubare. Per estensione potremmo affermare che tante volte si può essere istrioni e saltimbanchi nel presentarsi con delle qualità e delle prerogative che in realtà non si posseggono e un tale atteggiamento spesso nasconde un ‘identità riprovevole.
Raffinatezza, precisione, eleganza e sontuosità negli arredi liturgici per ostentare competenza nelle celebrazioni per una presunta lode divina non possono essere considerate come un vero atto di culto al Signore quando siano accompagnare dalla perversità e dall'insensibilità di chi sta celebrando. La creatività delle celebrazioni liturgiche, lo sfarzo in esse adoperato molte volte sono finalizzate alla sola ostentazione di una pura parvenza esteriore, ma per nulla rilevano propensione per la vera lode al Signore in vista della carità.
Anche nella Chiesa, come nella società globale, si rivela certa e comprovata l'osservazione di Pirandello: "Ci sono troppe maschere e pochi volti" e l'identità si nasconde dietro a false ed effimere trasformazioni. In sintesi, questa è l'ipocrisia: l'ostentazione falsa di se stessi che induce a legittimare per vero ciò che è falso. A ritenere indispensabile ciò che in realtà e solo secondario, banale e melense a discapito di ciò che è vero e costruttivo.
Certo, l'eleganza nel vestiario, la cura della persona e del portamento come pure le usanze e i costumi relativi all'igiene non sono in sé stessi elementi trascurabili né riprovevoli. Essi anzi sono di ausilio alla perfezione e alla completezza umana e non vanno rinnegati; a condizione però che siano speculari di una vera identità umana e di uno spirito sincero, dimesso e caritatevole. Ciò che appare deve corrispondere a ciò che si è; diversamente è meglio restare sporchi e maleodoranti fuori ma puliti e profumati dentro.
Diceva Oscar Wilde che "gli uomini sono sempre sinceri: cambiano sincerità ecco tutto". Adattano la trasparenza e l'identità di volta in volta ai loro interessi.