Omelia (01-09-2024)
don Alberto Brignoli
Magari bastasse andare a messa...

Potremmo iniziare la nostra riflessione di questa domenica con una domanda: nella vita di fede, siamo tradizionalisti o innovatori? Amiamo le cose antiche e legate alla tradizione della Chiesa oppure siamo più portati alla modernità e a cercare nuovi modi, anche alternativi, di vivere la fede? Non è una domanda priva di attualità: mai come in questo momento, perlomeno da dopo il Concilio Vaticano II (quindi da una sessantina di anni a questa parte), nella Chiesa si sente questa duplice spinta: da una parte, c'è l'apertura a modelli nuovi di cristianità, in maggior dialogo con altre fedi, altre religioni, altri modelli sociali e culturali; dall'altra parte c'è un forte ritorno al tradizionalismo, anche attraverso la riscoperta e la rivalutazione di forme liturgiche appartenenti al passato della Chiesa. A volte, ci si chiede cosa sia più giusto fare.
Se si è alternativi nel vivere la fede e la dottrina, si è visti male da una certa parte della Chiesa proprio perché alternativi e quindi potenzialmente capaci di cadere in forme dottrinalmente scorrette; se si è tradizionali e legati alle forme che ci sono state insegnate dai nostri padri, da un'altra parte della Chiesa si è tacciati di tradizionalismo, di non essere al passo con i tempi e quindi lontani dall'uomo contemporaneo, testimoni antiquati di una fede che non dice più nulla alla gente. E allora, cos'è giusto fare? Come ci si deve comportare? Da innovatori o da tradizionalisti? Oppure è bene stare a metà, come la saggezza latina insegna ("in medio stat virtus"), salvando così "capra e cavoli"?
"Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?": anche a Gesù è stata fatta questa domanda, quando i suoi discepoli si permettevano atteggiamenti "diversi" da quelli che la Legge di Mosè aveva loro insegnato. E la reazione di Gesù non è certo delle più morbide: attacca i farisei che cercavano di rimanere fedeli alle tradizioni e ai costumi dei loro padri definendoli "ipocriti", falsi, ovvero legati solo esteriormente alle tradizioni, ma in realtà lontani dallo spirito delle cose che le tradizioni volevano insegnare. Perché Gesù se la prende tanto? Perché una persona che con onestà trova sicurezza e stabilità nella forza delle tradizioni che gli sono state trasmesse, viene da lui vista come falsa e ipocrita?
Il problema non sta nello scegliere un modello rispetto a un altro, e nemmeno nella bontà di un atteggiamento rispetto a un altro. La chiave delle affermazioni di Gesù sta nella citazione che egli stesso fa, nel vangelo di oggi, a proposito di quanto disse il profeta Isaia al popolo d'Israele: "Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me". Cosa significa questo? Probabilmente, significa che ciò che Gesù vuole è che il rapporto con Dio e con le cose che lo riguardano non debba essere valutato sulla scorta di atteggiamenti più o meno rispondenti a leggi o norme o modi di fare ricevuti da chi ci ha insegnato la fede (le tradizioni, appunto), ma sull'intensità del nostro legame con Dio e con la vita, ovvero sul "cuore" che ci mettiamo quando facciamo qualcosa.
In fondo, servire Dio e definirsi cristiani non è difficile: basta seguire le norme che la Chiesa ci indica, conoscere e applicare il catechismo e i comandamenti, assolvere i precetti e con questo siamo a posto. Questo è sufficiente per dirci appartenenti alla religione cristiana: ma per dire che amiamo Dio, non basta. Tra l'appartenere a una religione ed essere uomini e donne profondamente innamorati di Dio, c'è una bella differenza. Le due cose non sempre coincidono: anzi, a detta di Gesù, quasi mai.
Perché onorare Dio con le labbra non significa automaticamente amarlo con il cuore. Soprattutto quando "onorare Dio" con atteggiamenti giusti e irreprensibili (tradizionali o innovativi che essi siano, a questo punto non importa più nulla) ci porta a giudicare gli altri e disprezzarli, arrivando addirittura a pensare male di loro perché non fanno quello che facciamo noi, perché non credono come noi, perché non professano la loro dottrina e la loro fede così come lo facciamo noi. Peggio ancora se, per giustificare le nostre teorie, ci trinceriamo dietro il "rispetto della tradizione", nella quale siamo certi che c'è infallibilità. Può anche darsi che sia così, ma forse non c'è amore.
Non è, quindi, questione di tradizione o di rinnovamento, di "assodato" o di alternativo", di canti in gregoriano o di musica leggera in chiesa, nel vivere il nostro rapporto con Dio. È solo questione di cuore.
Si può essere uomini e donne di Dio anche se diversi e lontani dagli schemi classici, così come può capitare di non amare Dio pur osservando tutti i precetti e le tradizioni che la Chiesa ci ha insegnato. Se il nostro cuore non è tutto rivolto a Dio, non sarà certo l'osservanza o meno dei precetti a riportarlo verso di lui. E come capiamo se il nostro cuore è rivolto o no a Dio? Da come ci comportiamo nei confronti dei nostri fratelli e della vita in generale.
Perché non è ciò che assumiamo su di noi o dentro di noi (anche attraverso la tradizione) a farci giusti. È ciò che "buttiamo fuori" nei confronti della vita che dice quanto il nostro cuore sia pieno di amore oppure di tutte quelle schifezze che il Vangelo di oggi ci sbatte drasticamente in faccia: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza, e chi più ne ha più ne metta... Sono tutte cose che buttiamo fuori, addosso agli altri, quando il nostro cuore non è tutto rivolto a Dio. Anche se a messa ci andiamo tutte le domeniche, e magari tutti i giorni, convinti che basti questo per dirci cristiani.