Omelia (15-09-2024)
don Michele Cerutti
Mistero della Croce per essere missionari di speranza

Mi piace aprire queste mie riflessioni meditando lo scritto di Giacomo che colpisce sempre nel segno scuotendoci con questa sua lettera e cercando di condurci all'essenzialità.
La grande lezione dell'apostolo è quello di dimostrare che la fede è il cuore e il perno del credente.
Questa virtù la misuriamo come quel contatto profondamente personale con Dio, che penetra nel tessuto più intimo della persona stessa mettendola di fronte al Dio vivente in assoluta immediatezza in modo cioè che egli possa parlargli, amarlo ed entrare in comunione con lui.
Giacomo ci invita a fare un salto più importante quando ci esorta, tuttavia, a rendere visibile questo dono che Dio ci consegna gratuitamente. La relazione quindi con le opere. Non ci salviamo per il bene che facciamo perché questo è infinitamente piccolo rispetto all'amore di Dio, ma la fede ci deve spingere dalla dimensione dell'io alla realtà del noi dei figli nel Figlio Gesù Cristo.
Senza le opere quindi il rapporto con Dio diventa solo una semplice etichetta.
Allora attingendo da Lui troviamo quella forza che ci conduce ai fratelli e ogni cosa che facciamo a loro lo abbiamo fatto a Lui stesso.
Una parentesi quindi che ci porta a riflettere sulle letture di questa domenica la prima e il Vangelo che si illuminano vicendevolmente.
Letture che ci offrono una sintesi sulle due grandi feste, che quest'anno rischiano un poco di eclissarsi perché una di queste cade in domenica e l'altra solo Sabato fino al primo pomeriggio per scomparire al tramonto con i primi vespri della Pasqua settimanale: Esaltazione della Santa Croce e Madonna Addolorata.
Isaia ci presenta la profezia con cui in filigrana leggiamo la sofferenza di Cristo che si tiene sempre fedele alla preghiera del Getsemani: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42). Gesù si affida totalmente al Padre e per questo, pur martoriato e deriso, sceglie di continuare il suo cammino fino al sacrificio finale. Come scrive Paolo, «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8).
Davanti a tutto ciò i discepoli non riescono a comprendere questa volontà.
Pietro prima della classe si fa avanti nella sua professione di fede e non accetta, tuttavia, la dimensione della Croce eppure questa conducendo alla Risurrezione illumina quella espressione che il principe degli Apostoli oggi ci consegna: "Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio".
Solo guardando il Crocifisso Risorto diventiamo capaci di guardare il volto del fratello nella necessità e il nostro operare, come ci chiede Giacomo, assume un significato profondo.
Le nostre opere quindi non assumono l'aspetto semplicemente filantropico, ma diventano la risposta dell'amore di Dio.
Solo guardando al Crocifisso Risorto riusciamo a dare una spiegazione alla dimensione del nostro soffrire e comprendiamo che Dio abita il nostro dolore.
Guardando a Maria, che veneriamo come Addolorata, mi piace pensare a un episodio che in questi giorni ho letto sui social e che voglio riportare e può aiutarci a meditare.
Episodio che mette in stretta connessione il dolore della Croce e la Vergine di Nazareth.

- Allora, come la mettiamo con Dio? Dove era Dio in quel momento? -
È la domanda che il giornalista fa a bruciapelo alla signora Jadwiga Pinderska Lech, Presidente cattolica della Fondazione vittime di Auschwitz-Birkenau.
Lei rispose: "non riuscivo a trovare risposta (...) finché un giorno mi sono fermata ad osservare uno strano oggetto rinvenuto nel nostro archivio. Lo costruì un prigioniero, inanellando minuscole palline fatte con la mollica del pane. Un rosario. Mi ha sconvolto.
Chi mai ad Auschwitz si sarebbe privato del razionatissimo cibo per il corpo allo scopo di alimentare la sua anima, se non avesse creduto in Dio e nella vita eterna?".
Dio si nascose ad Auschwitz in un rosario fatto di pane.