Omelia (05-06-2003)
padre Lino Pedron
Commento su Giovanni 17,20-26

A questo punto del capitolo 17 la preghiera di Gesù si allarga fino ad abbracciare tutti i discepoli che in futuro crederanno in lui per la parola dei suoi primi discepoli. Per essi chiede al Padre il dono dell'unità più profonda, modellata e fondata sulla comunione di vita tra il Padre e il Figlio.

Il "come" indica il modello e il fondamento dell'unità dei credenti. I cristiani devono ispirarsi all'ideale realizzato dalle persone della Trinità; nella loro vita di comunione devono tendere a questa unità perfetta. Una vita di unione e d'amore così profonda nella comunità cristiana riveste un valore fortissimo per suscitare la fede: "Affinché il mondo creda che tu mi hai mandato" (vv.21 e 23).

Gesù ha donato ai discepoli la gloria ricevuta dal Padre (v.22), ossia ha reso i credenti partecipi della sua divinità. Questa gloria divina rifulge in modo unico nel Figlio, per questo Gesù domanda al Padre di farla contemplare ai credenti (v.24). Il dono della gloria di essere figli di Dio è stato concesso ai discepoli in vista dell'unità: "affinché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola" (v.22).

I cristiani, consapevoli di essere figli dello stesso Padre e di formare la famiglia di Dio devono vivere uniti, in perfetta comunione di mente e di cuore, a somiglianza del Padre e del Figlio; anzi, sono inseriti nella vita della Trinità, perché il Padre è nel Figlio e il Figlio è nei discepoli. Quindi, rimanendo vitalmente uniti a Cristo, i credenti vivono in comunione perfetta con Dio e così si realizza la perfezione dell'unità.

Tale unità dei cristiani avrà un effetto di salvezza per l'umanità: susciterà la fede nella missione divina di Gesù e il riconoscimento dell'amore del Padre per i discepoli. Il Padre ama i credenti come ama Gesù e li ama in lui.

Nel v. 24 Gesù esprime la sua estrema volontà: "Padre, voglio". Gesù chiede che i suoi discepoli partecipino alla sua gloria in paradiso. Al malfattore, crocifisso con lui, Gesù assicura: "Oggi sarai con me in paradiso" (Lc 23,43).

Il passo finale di questa preghiera si apre con l'invocazione "Padre giusto": essa è una variazione di "Padre santo" (17,11); ambedue le invocazioni esprimono la trascendenza e la natura di Dio. Nel salmo 145,17 gli aggettivi giusto e santo, riferiti al Signore, sono sinonimi.

Nelle ultime invocazioni di questa preghiera Gesù ricorda al Padre che egli e i suoi discepoli hanno riconosciuto la sua santità, ossia la sua trascendenza divina. Il mondo tenebroso invece non ha voluto conoscere Dio perché ha rifiutato la luce di Cristo e quindi non può giungere a Dio, perché nessuno va al Padre se non per mezzo del Figlio (Gv 8,19.39ss; 14,6ss).

L'uomo Gesù ha riconosciuto il Padre per esperienza diretta e in maniera vitale. I suoi discepoli si sono inseriti in questa corrente di luce aprendosi alla fede nell'Inviato di Dio (v.25).

Nelle battute finali Gesù riprende la tematica della rivelazione del nome del Padre ai suoi amici (17,6.26). La manifestazione passata della rivelazione ("ho manifestato loro il tuo nome") ricorda il ministero pubblico di Gesù fino allo scoccare dell'"ora" presente. La manifestazione futura ("lo manifesterò") riguarda gli avvenimenti finali della vita terrena di Cristo, ossia la sua glorificazione con la passione, morte, risurrezione e ascensione. L'"ora" di Gesù costituisce la manifestazione piena e definitiva del nome del Padre, della manifestazione del suo amore, del dono dell'amore di Dio ai discepoli. L'amore del Padre per i credenti è concesso in occasione dell'esaltazione suprema del Figlio (v.26).