Omelia (22-09-2024) |
don Andrea Varliero |
Per il bambino che verrà Un bambino è posto al centro, un bambino diventa misura del mondo: prima di quell'abbraccio, prima di averlo messo davanti a tutti, prima di quella frase: «Chi accoglie un bambino nel mio nome, accoglie me», il bambino non contava nulla. Semplicemente non esisteva: né per la famiglia, né per la società, né per Dio. Non in grado di leggere la «Torah», non autorizzato ad entrare né nella sinagoga né al Tempio, non un cittadino. Come la vedova, come l'orfano, come lo straniero, il bambino ridotto ai margini; e Lui lo pone al centro: chiede a noi che un mondo, un Vangelo e una Chiesa siano a misura di bambino. Non ci chiede una regressione infantile, né di ritornare ad uno stato immaturo, ingenuo, puerile, sprovveduto; chiede invece un salto in avanti, un renderci conto della nostra responsabilità adulta, tutti noi genitori che abbracciano, anche se non abbiamo figli: che la misura del mondo sia un bambino. Attorno a me vedo bambini diventati adulti troppo in fretta, bambini soli come gli adulti, un ritmo di vita e giornate piene a misura di adulto, che poco hanno a che fare con la vita di un bambino. Ho imparato che il bambino ha una percezione del tempo diversa dalla mia, gli scorre più lentamente. Ho imparato che la fantasia gli è necessaria, che quel mondo fantastico che si crea è energia e progetto di vita per l'uomo e la donna che sarà. Ho imparato che i bambini si odiano, attentano dieci volte al giorno la vita del fratellino, e un attimo dopo si abbracciano: per loro non esiste la faida, il rancore. Ho imparato che un mondo a misura di bambino è un mondo di pace: quando ci sono dei figli, quando ne va di mezzo la loro vita, allora ci si ferma prima di intraprendere una guerra. Solo un mondo senza bambini può pensare ad una guerra. Ho imparato che quella sicurezza di un abbraccio, quella parola forte e dolce, quella paura del buio sono superati dalla fiducia che tua madre non ti abbandona, che tuo padre è forte per te. Un bambino sa fidarsi, sa affidarsi e sa stupirsi. Un bambino sa abbracciare. Sono trascorso millenovecento cinquantanove anni, quasi due millenni, prima che il mondo mettesse nero su bianco quell'indicazione, il bambino al centro. È infatti del 1959 la dichiarazione universale dei diritti del bambino. Per la prima volta, si è scritto e condiviso che ogni bambino ha il diritto all'uguaglianza, maschio o femmina, bianco o nero che sia; ogni bambino ha il diritto alla salute; ad essere istruito; ogni bambino ha il diritto di giocare e vivere un tempo libero; ha il diritto alla libertà d'espressione; ad essere protetto contro ogni forma di violenza; ad essere posto al sicuro dalla guerra e dalla fuga; ogni bambino ha il diritto a essere custodito contro lo sfruttamento; il diritto alle cure di entrambi i genitori; ogni bambino, specialmente se disabile, ha il diritto ad essere assistito. Quanti di questi diritti sono ancora calpestati, ogni giorno: forse le scarpe che indossiamo sono state fatte da mani di bambini privati della loro infanzia; forse le bombe intelligenti e chirurgiche in questo momento non si stanno rendendo conto di colpire un ospedale pediatrico; forse un bambino disabile fa fatica ad accedere ad un parco giochi o ad essere accolto in classe. Anche le nostre comunità cristiane sono chiamate alla misura del bambino, capaci di accogliere e abbracciare: profeti contro una progressiva insofferenza che vorrebbe tutto «Children free», libero dall'energia vitale che un bambino porta. Non mi disturba celebrare la vita nell'eucarestia con un pianto di un bambino, mi mette molto più a disagio l'insofferenza e il gelo di un adulto. E mentre noi continuiamo all'infinito quello stesso dialogo dei discepoli, e facciamo di ogni momento un'occasione per misurare, per risponderci che io sono più grande, più bravo, più di tutti, tu non sai chi sono io, Lui si mette a servire, ultimo tra gli ultimi. Guarda il mondo a partire dall'ultimo, non dal primo. E mentre noi facciamo del potere la misura del mondo, Lui si lascia consegnare, si lascia mangiare dalla gente. «Bambino», «ultimo», «consegnato» è il suo Nome. È sorprendente contemplare la Croce con queste tre parole: lì comprendo il consegnato, le mani che non possono muoversi eppure sono libere fino in fondo. Lì comprendo l'ultimo tra gli ultimi, uno tra i tanti, un senza nome e senza volto che neanche più vedo per strada. Lì comprendo anche il bambino: è così il crocifisso, un bambino che abbraccia il papà, che non ha paura del buio, che non si sente abbandonato alla notte. È così, incapace di odiare e di trattenere rancore. È così: con gli occhi che sognano ancora un domani migliore. Per il bambino che verrà. |