Omelia (14-10-2024) |
Missionari della Via |
Commento su Luca 11,29-32 Gesù paragona la sua predicazione a quella di Giona per spiegare che la non accoglienza del bene ci porta a chiuderci alla grazia che vuole raggiungerci. Anche Giona, come ci racconta il libro biblico, visse una serie di ostacoli e sofferenze, fu accusato di aver causato una tempesta, venne gettato in mare, e fu custodito nel mare tre giorni per essere poi lanciato a riva. Egli poteva cogliere la sua storia come segno e cambiare, eppure era recalcitrante. Il libro di Giona è l'unico che termina con una domanda, come a dirci che il percorso di Giona è un interrogativo al cambiamento. Così è anche per noi: Dio ci parla attraverso la nostra storia, attraverso Gesù stesso; perciò, noi siamo responsabili di non sprecare la nostra esistenza. Davanti a Gesù che si fa vivo nella nostra vita, cosa vogliamo fare? Anche a noi, come a Giona, viene chiesto di fare la volontà di Dio, di costruire pace e bellezza. Il più delle volte siamo quelli che chiedono a Dio di mostrare segni e prodigi: se ci ama -pensiamo- deve fare qualcosa per noi. Noi, invece, siamo capaci di tirarci indietro davanti al possibile, e davanti ad ogni minimo ostacolo tiriamo in ballo l'incredulità. La fede ha bisogno di un cammino di responsabilità che richiede una crescita non solo personale ma relazionale. «La fede è un atto personale: è la libera risposta dell'uomo all'iniziativa di Dio che si rivela. La fede però non è un atto isolato. Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l'esistenza. Il credente ha ricevuto la fede da altri e ad altri la deve trasmettere. Il nostro amore per Gesù e per gli uomini ci spinge a parlare ad altri della nostra fede. In tal modo ogni credente è come un anello nella grande catena dei credenti. Io non posso credere senza essere sorretto dalla fede degli altri, e, con la mia fede, contribuisco a sostenere la fede degli altri» (CCC 166). |