Omelia (20-10-2024) |
don Alberto Brignoli |
Il Vangelo non si impone, si serve Per almeno tre delle quattro domeniche di ottobre, il vangelo di Marco ci propone tre diverse figure di discepolo. Domenica scorsa abbiamo avuto a che fare con il giovane ricco, uno che era disposto a fare grandi cose con Gesù, e che invece si rivela un fallimento, per colpa del peso delle sue ricchezze. Domenica prossima incontreremo il cieco di Gerico, che incurante di un gruppo di discepoli che vuole allontanarlo dall'incontro con il Maestro, grida con tutta la sua disperazione la sua sete di salvezza e diviene poi testimone diretto della misericordia di Dio. In mezzo, oggi, troviamo i due fratelli Giacomo e Giovanni, che vedono Gesù come un'opportunità di riuscita e di successo nella vita, anche se poi la loro vicenda terrena li porterà a scoprire Gesù non come un leader politico, bensì come il Servo sofferente di cui ci parla la prima lettura, ovvero uno che certamente guida e salva il suo popolo, ma attraverso la dimensione del servizio e non quella del potere. Nei due figli di Zebedeo intravedo il paradigma di ogni discepolo, che in Gesù cerca sicurezza e gloria e invece trova debolezza e servizio agli ultimi. E dato che oggi celebriamo in tutto il mondo la Giornata Missionaria, credo che nei due discepoli sia possibile vedere anche il paradigma di ogni discepolo missionario, chiamato a essere testimone di un Vangelo che, secondo la logica del mondo, ha ben poco di esaltante da offrire. In fondo, il rischio della deriva autoritaria di Giacomo e di Giovanni è il rischio di ogni missionario: quello di sentirsi, in nome dell'annuncio del Vangelo, portatore di una verità invece che umile strumento di servizio. Quando si parte per un altro paese come missionari (e chi mi conosce sa che lo dico per esperienza diretta) ci si sente molto orgogliosi di quello che si va a fare, perché avvertiamo dentro di noi una specie di "investitura" (addirittura riceviamo un "mandato" missionario) che ci fa sentire "portatori" di qualcosa. Portatori del Vangelo, indubbiamente; portatori di una parola di speranza, di una parola che è Verità, perché di questo si tratta. E fin qui, nulla di strano. Le cose cominciano a non andare per il verso giusto quando facciamo coincidere questa Parola di Verità che è il Vangelo con le "nostre" parole; quando facciamo coincidere l'annuncio del Regno di Dio con la proclamazione del "nostro" regno; quando facciamo coincidere la sovranità di Dio sulla storia e sull'umanità con i nostri desideri di sovranità, di dominio, di autorità. E questo atteggiamento, tra noi missionari, è molto più frequente di ciò che pensiamo. Il Concilio Vaticano II, già 60 anni fa, ha aiutato ogni credente a riscoprire la Chiesa e la sua azione missionaria come luogo di servizio; ovvero, luogo di annuncio del Regno che non va mai disgiunto da un impegno di carità inteso come servizio ad altre chiese sorelle più povere, con la necessità di un discernimento capace di portare il missionario a scoprire la presenza del Vangelo in ogni realtà e in ogni cultura. Col passare degli anni, tuttavia, abbiamo assistito alla rinascita di uno spirito missionario talmente convinto di portare in ogni parte del mondo la Verità del Vangelo da assumere atteggiamenti di "dominio", di "certezza", di "verità in tasca che non si discute" e che si impone ad altre culture e ad altre chiese sorelle, saltando ogni opera di mediazione e di inculturazione del Vangelo, prescindendo dal cammino di fede che già esiste in ogni uomo e in ogni cultura. Lo sforzo di Gesù nel far comprendere a Giacomo e Giovanni che annunciare il Vangelo non significa dominare o imporsi agli altri, ma significa innanzitutto mettersi al servizio dell'uomo, è uno sforzo che non è mai concluso. In missione, qui o altrove, ovunque un Vangelo senza confini ci porti ad andare, non possiamo pensare di dominare o imporre la nostra fede con atteggiamenti di superiorità nei confronti delle diverse culture o espressioni religiose. Non andiamo a dominare, ma ad accompagnare; non andiamo a "illuminare" le coscienze, ma a lasciarci illuminare dai progetti che la Grazia di Dio ha sull'umanità; non andiamo a indicare la strada agli altri, ma a condividere insieme con loro un pezzetto di quella strada che ci porta entrambi all'incontro con Dio. Non c'è un solo passo in tutto il Vangelo che ci mostri Gesù mentre "impone" la sua Parola di Verità a qualcuno: perché la sua logica non è quella del dominio, ma quella del servizio, dal farsi ultimi, dell'amore per i poveri; in definitiva, la logica della Croce. Sono già fin troppi i paesi del Sud del mondo (e non solo del Sud) soggetti alla logica del "messianismo" politico e religioso, ovvero quella logica per cui ci si affida al carisma e al potere di un leader che diventa padre e padrone di tutti e che, in nome di un falso bene per la nazione, impone i propri interessi e le proprie strategie a popoli assetati di giustizia e di risposte adeguate ai loro problemi quotidiani. Almeno noi, uomini di Chiesa, preti, religiosi e religiose, ma anche laici, dobbiamo allontanarci da questa tentazione, sempre forte, di utilizzare il Vangelo per imporre una verità che nessuno di noi può dire di possedere. Men che meno noi Chiese di antica tradizione del Nord-Ovest del mondo, divenute oggi a nostra volta "terre di missione"... Oggi Cristo chiede a Giacomo e Giovanni di fare un passo impegnativo, per essere suoi veri discepoli: chiede loro di essere disposti a "bere lo stesso calice che lui deve bere" e a "ricevere il battesimo che anche lui deve ricevere", ovvero quello del martirio e della croce. Oggi Cristo chiede a ognuno di noi suoi discepoli, in particolare a chi sente di dedicare la propria vita a servizio del Vangelo in ogni parte del mondo, di bere allo stesso calice a cui, costantemente, bevono milioni e milioni di persone sulla faccia della terra, ossia il calice della sofferenza, dell'ingiustizia, del mancato rispetto dei diritti umani, della violenza e della sopraffazione, del sopruso, di un lavoro che non c'è o è mal pagato, della fame e delle malattie sofferte senza motivo. Bere a questo calice significa accettare di condividere, nella logica del servizio, le sorti di popoli che hanno ancora tanta fame e sete di giustizia; non per rimanere, con loro e come loro, inermi di fronte alle ingiustizie, né tanto meno per imporre loro una fede anestetizzante, pesante e opprimente, ma per aiutarli a credere e sperare ancora in un Dio che "è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la propria vita per loro". |