Omelia (27-10-2024)
padre Gian Franco Scarpitta
Aprire gli occhi alla vita per la fede

Un non vedente che viene a sapere di Gesù subito si colloca nelle zone in cui probabilmente dovrà trovarsi a passare e, come avviene di solito per le persone che sperano di poter ottenere almeno un po' di attenzione da personaggi più importanti, comincia a gridare e a implorare pietà. Un dato di fatto da non trascurare: nel gridare, questo pover'uomo chiama Gesù "Figlio di Davide", riconoscendo così la sua figura messianica e la sua divinità. Lo esalta come il Signore, il Salvatore promesso e atteso dalle genti. Ovviamente in questi casi avviene che altre persone tentano di metterlo a tacere in quanto importuno e molesto, ma Gesù, che come sempre mostra attitudini contrastanti con quelle a cui siamo abituati, lascia che quello venga da lui. Anzi, lo manda a chiamare appositamente e poi, ottenutagli la vista, gli dice: "Va', la tua fede ti ha salvato". Con queste parole Gesù afferma di non voler semplicemente compiere un atto di pietà e di compassione nei confronti di un povero malcapitato che ha incontrato quasi casualmente sul suo cammino. Non vuole semplicemente dimostrare una benevolenza fittizia, con la quale siamo spesso soliti toglierci di torno una persona molesta; piuttosto Gesù prende atto di quella che è stata la buona disposizione di questo povero cieco, che già sin dall'inizio aveva mostrato una grande apertura di cuore nei suoi confronti, una fede disinteressata e indiscussa nella sua messianicità e nel suo annuncio. Quando siano presenti episodi di guarigione degli storpi, dei non vedenti, dei lebbrosi e quando ai poveri è annunciata la Buona Novella, ciò significa che il Regno di Dio è presente in mezzo a noi (Lc 7, 22); in un caso come questo il Regno di Dio è venuto e un povero bisognoso lo ha accolto a piene mani, mostrandosi umile, sottomesso, ma anche fiducioso e speranzoso nella fede. La sua fede ha permesso infatti alla speranza di prendere corpo in lui e di aver ragione della titubanza e delle apprensioni. Gli ha meritato il recupero della vista. Il fatto poi che Marco sia esplicito sul suo nome, Baritmeo (in aramaico "figlio di Timeo") potrebbe sottendere la familiarità grande che Dio in Gesù Cristo gli ha accordato, quindi la disinvolta gioia dell'incontro con lui.
Egli concede tutto se stesso a Colui che ha riconosciuto come il Salvatore e proprio questa premurosa sollecitudine che è la fede gli procura la guarigione fisica. Nella fede egli aveva visto in profondità, osservando la realtà con maggiore dovizia di particolari, ed era arrivato così a concepire la pienezza della Rivelazione e della salvezza realizzata da Dio in Cristo. La fede nel Signore lo aveva condotto a riconoscere il mistero di Dio che si concede agli uomini e a farlo proprio, cosicché egli aveva "visto Gesù" ancor prima che questi giungesse sul posto e questa visione interiore, molto più sviluppata e più capace rispetto a quella dei cosiddetti "vedenti", gli merita non soltanto che Gesù lo ascolti nelle sue richieste, ma addirittura che sia lui stesso a farlo chiamare: "Coraggio, alzati, ti chiama".
In una famosa poesia dedicata alla moglie non vedente, Montale sottolinea come la vista della sua consorte, nonostante la defezione oftalmologica, fosse molto più sviluppata della sua, poiché lei era in grado di vedere e di soppesare molto meglio del marito. Così è in effetti il vedere cristiano: il valicare l'immediato e l'evidente, prescindere da ciò che la sensorialità ci presenta e interpretare ogni cosa sotto l'aspetto della volontà di Dio. Tutto questo è la fede. Il dono divino per il quale apriamo il cuore alla fiducia e ci immedesimiamo nello stesso Dono e abbiamo ragioni di sperare e di perseverare nonostante le avversità e le contrarietà. La prospettiva per guadagnare la vita piena già su questa terra per ritrovarcela nell'immortalità futura. L'incontro con Dio per il quale si vive, cambiando radicalmente la nostra vita. Come nel caso di questo cieco nato, che incontra il Signore nella fede e per questo coltiva la speranza di poter vedere.
Aprire gli occhi ai ciechi vuol dire non solamente guarire in senso fisico ma anche liberare dalla cecità della presunzione e dell'orgoglio che precludono ogni cosa anche a noi stessi. Questa è la promessa divina nel profeta Geremia 31, 8 (I Lettura): "Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla." E anche in Isaia: "Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri?" (Is 42, 6 - 7).
Ottenere la guarigione non corrisponde solamente alla possibilità di distinguere gli oggetti e i colori con le facoltà ottiche, ma sottende anche la prerogativa di saper guardare ogni cosa sotto un'altra ottica. Per questo la Scrittura, mentre parla della volontà decisionale di Dio di intervenire sulla cecità del popolo, insiste sull'apertura del cuore e sulla necessità dell'attenzione da parte di quanti sono raggiunti da Dio: poiché alla libera iniziativa della rivelazione deve corrispondere l'atto altrettanto libero della fede, il saper vedere e distinguere ogni cosa deve essere prerogativa di chi si affida radicalmente a Dio.
Dio viene a noi in tutti i modi e la fede ci aiuta ad andargli incontro perché la sua venuta non sia vana e infruttuosa. Essa vuole sempre caratterizzarsi come un incontro e come relazione di amicizia e di familiarità, di apertura sincera da una parte e dall'altra. A Dio che si rivela e che tende ad aprirci gli occhi non va opposta resistenza, non si recalcitra, ma ci si deve concedere senza riserve, abbandonandosi fiduciosamente e senza riserve. E di questa fede occorre anche vivere e operare, perché non cada nel vuoto della sterilità o non si precluda alle novità dello stesso Regno di Dio.