Omelia (10-11-2024) |
don Alberto Brignoli |
Donare vita nell'ombra della morte Quella appena trascorsa si è caratterizzata come la settimana di preghiera per i defunti, così come, più in generale, lo è tutto il mese di novembre, popolarmente definito "il mese dei morti", nel quale ci è data l'occasione di ricordare in maniera più intensa, rispetto agli altri periodi dell'anno, le persone care che ora non sono più tra noi. Ed è il mese dei morti perché anche la natura muore, in questo mese: e lo fa in una maniera meravigliosa, regalandoci pennellate di colore senza uguali nelle altre stagioni, e che neppure i più grandi pittori della storia hanno potuto imitare. Come a volerci dire che la morte è avvolta da un alone di mistero che la rende drammatica e quasi affascinante, allo stesso tempo: proprio come le foglie di un bosco, che, mentre muoiono, ci regalano meravigliosi sprazzi di fascino. Anche le letture di oggi, pur in un contesto di persone segnate dalla morte, ci offrono sprazzi di colore e di vita. In mezzo al grigiore di una fede morta, che concepisce Dio come un giudice disposto a elargire doni all'uomo a seconda della sua "pietà" (ossia della quantità di offerte che da lui riceve), due vedove, libanese quella della prima lettura ed ebrea quella del vangelo (i cui figli, oggi, pensano solo alla morte l'uno dell'altro... ironia della storia...), donne segnate nel profondo del loro cuore dalla morte, pennellano di colore la nostra vita, facendoci ritornare a una fede autentica e genuina, fatta di gesti di totale abbandono in Dio più che di sfacciate ostentazioni di una fede ritenuta ricca, eppure priva di vita. Che cosa fanno queste due vedove di così straordinario per meritare l'apprezzamento e la lode del profeta Elia l'una e di Gesù l'altra? Per comprendere fino in fondo la profondità dei loro gesti di generosità, è necessario ricordare che il popolo d'Israele legava il possesso dei beni materiali e la possibilità di compiere elemosine al concetto di "retribuzione divina", ovvero quel concetto per cui le ricchezze che una persona possiede sono il segno della benedizione di Dio, che si è degnato di "retribuire" la bontà di quella persona attraverso, appunto, l'elargizione di molti beni. A sua volta, il ricco - benedetto da Dio - aveva il dovere di mostrare agli uomini la propria "santità" attraverso una serie di elemosine e di elargizioni, tanto più preziose quanto più numericamente significative. Da ciò, si arrivava a dedurre che il povero era tale perché colpito da Dio, o a causa dei propri peccati (pensiamo alla vicenda del cieco nato del Vangelo di Giovanni o nell'Antico Testamento alla vicenda di Giobbe) oppure per la morte dei familiari più stretti, castigati da Dio per qualcosa di male nella loro esistenza: l'orfano e la vedova erano l'emblema di questa povertà "provocata" da Dio. Oggi di fronte a questo diremmo tranquillamente "Che colpa ne hanno loro?"; e in effetti, nella Sacra Scrittura, è quasi impossibile incontrare testi che rafforzino o giustifichino questa idea, dal momento che Dio sempre è presentato come difensore del povero, dell'orfano e della vedova (lo abbiamo pure pregato nel Salmo). Era però una mentalità molto diffusa nella società ebraica del tempo di Gesù, il quale spesso si scaglia contro di essa, richiamando a una fede autentica fatta di gesti semplici di misericordia più che di elemosine eclatanti, e prendendo di mira farisei e dottori della legge, principali sostenitori di questo falso atteggiamento di fede. Nel Vangelo di oggi, il Maestro fa ancora di più: indica come esempio di fede una povera vedova che entra nel tempio per fare la sua misera offerta, insignificante a dispetto di quei ricchi che nel tesoro del tempio gettavano molte monete. Qui sta il segno della vita nuova che Gesù è venuto ad annunciare: non più una fede fatta di elemosine e sacrifici in virtù di ciò che si ha, ma una fede semplice resa autentica in virtù del dono di ciò che si è. Dio non pretende da noi che facciamo molte cose, quantitativamente significative ma spesso prive di verità e di senso; si accontenta del nulla che abbiamo e che siamo, nella misura in cui questo diventa dono totale di noi stessi e abbandono fiducioso nelle sue mani. La vedova di Sarepta è benedetta da Dio non certo per l'accoglienza opulenta che rivolge al profeta Elia, ma per il dono assoluto del "nulla" che essa possiede, e che per lei e per il figlio era tutto ciò che restava per sopravvivere: la sua fede è premiata da Dio non solo con l'elargizione di olio e farina che non verranno mai meno neppure durante la grande carestia, ma anche dalla resurrezione, per opera di Elia, del suo figlio unico narrata nei versetti successivi a quelli che abbiamo letto. La vedova povera che va al tempio a gettare la sua offerta è indicata da Gesù come esempio di fede non per l'abbondanza della sua offerta, ma per il fatto che il dono misero delle sue due monetine (corrispondente al salario giornaliero di un bracciante) è segno del dono di sé, della sua stessa vita, quasi un Sacramento, un segno della grazia di Dio che salva. Gesù si trova nel tempio, a Gerusalemme, dove a breve verrà consegnato per essere messo in croce e offrire la sua vita per tutti; ma prima di mostrare se stesso come vittima sacrificale sull'altare della Croce, anticipa la sua rivelazione nel gesto di questa povera vedova, vittima sacrificale sull'altare del disprezzo, dell'emarginazione, dell'orgoglio di quegli scribi che, al tempo stesso, mentre "pregano a lungo per farsi vedere", "divorano le case delle vedove". Se anche noi, come loro, riteniamo che la fede sia un insieme di molte pratiche e di molte opere fatte e vissute con ostentazione di fronte a Dio e agli uomini "per farci vedere" dagli altri come uomini e donne di fede, siamo ben lontani dal Regno di Dio: e come loro riceveremo - lo dice Gesù stesso - "una condanna più severa". Ricordiamoci dell'insegnamento di questa povera vedova, ogni volta che, avendone la possibilità, facciamo grandi elemosine e grandi donazioni chiedendo in cambio una targa o un attestato che menzioni ai posteri la nostra generosità: perché la carità - ce lo dice San Paolo - "non si vanta e non si gonfia d'orgoglio". |