Omelia (15-12-2024) |
don Andrea Varliero |
Che cosa dobbiamo fare? Attendo quella fotografia di anno in anno con sempre maggiore interesse, una fotografia donata quasi sempre all'inizio dell'Avvento. È il rapporto Censis, rapporto annuale sull'Italia e sugli italiani, su quello che si è vissuto «di pancia»: nella foto rivedo tanti volti, tante persone, tanti dialoghi, tante preoccupazioni. È la foto di un'Italia che non cresce, ma «galleggia», affetti da «sindrome da galleggiamento», con il ceto medio «sfibrato», mentre i redditi reali sono calati del 7% in venti anni. Nella foto si intravvede tanta preoccupazione: quasi sei su dieci tra noi, il 57,4%, «si sente minacciato da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato». Minacciati anche da chi vuole facilitare l'ingresso dei migranti in Italia. I nostri volti diventano tesi e induriti, irrigiditi: uno su tre di noi «vede come un nemico chi è portatore di una concezione della famiglia divergente da quella tradizionale». Un fortino asserragliato, una trappola identitaria senza finestre, senza respiro. Nella foto manca completamente un libro, un'idea, una parola coniugata a proposito: siamo sempre più ignoranti. Una «fabbrica degli ignoranti» l'Italia intera: manchiamo di conoscenze di base che «rende i cittadini più disorientati e vulnerabili». Una foto spaccata tra città e campagna, soprattutto sotto il profilo dei servizi: paesini isolati da ogni servizio, sia pubblico che privato. Galleggianti, impauriti, «ignorantiti», irrigiditi, impoveriti, allontanati. «Che cosa dobbiamo fare?», lo chiedono anche a Giovanni Battista. Loro, folla anonima di un rapporto statistico; loro, pubblicani, fini analisti del mondo della finanza; loro, soldati, potere forte di fabbrica di armi e violenza. Folla, pubblicani e soldati: brama di apparire, di possedere, di potere. Come un'improbabile carovana si incamminano insieme: vanno nel deserto, laddove il vento soffia più forte, laddove il silenzio si scrive sulla sabbia, laddove c'è bisogno di essenzialità. Là, nel deserto, incontrano un uomo: Giovanni Battista. Immensa figura, uomo necessario, uomo integro, uomo in piedi, uomo fedele a se stesso e a Dio, forte di una parola di cambiamento. Le sue risposte a questa carovana allo sbando sono bellissime, sono disarmanti, sono attualissime: non aver paura a condividere un vestito, un pane, un briciolo di umanità. Non esigere pizzi, non fare creste, un «surplus» alla tassa. Poni un limite alla tua carica, una responsabilità al tuo potere. Quel profeta di fuoco e di vento, quella figura morale ancora forte, ci indica qualcosa di fondamentale: fare bene ciò che si deve fare, lavoro, rapporti umani, coscienza professionale, studio. La quotidianità è la nostra santità, è la nostra salvezza, è la nostra preghiera. Sono i nostri piccoli insignificanti gesti e i nostri fugaci sguardi, le nostre scelte di ogni giorno, i nostri studi, la nostra pazienza a rimanere, la nostra fedeltà alle piccole cose di ogni giorno, a farci cambiare. A rinnovarci. Scrive il cardinal Josè Tolentino Mendonca: «Noi valorizziamo forse poco la vita quotidiana. Ci sentiamo imprigionati dalla routine, in un trantran monocorde capace di mettere in ibernazione noi e l'universo intero. Oppure ci vediamo presi in un vortice di obblighi che non ci fanno che produrre sforzo, accelerazione e stanchezza, e senza darci risposte. Il quotidiano ci appare spesso come un'arena nebbiosa in cui combattiamo, con grande fatica, la nostra lotta per la sopravvivenza. "Quando penso alla quotidianità, l'Infinito mi sembra una cosa ancor più distante", mi confidò, un giorno, un'amica. Eppure, senza sottovalutare questo stato d'animo che è reale, senza negarne il peso, noi abbiamo bisogno di riconciliarci con la quotidianità. Perché nella sua forma vulnerabile, anche contraddittoria, essa è il luogo degli apprendimenti più vasti, degli incontri più decisivi, delle esperienze più illuminanti. La vita, a ben guardare, non è tutti i giorni uguale. I giorni, se li abbracciamo bene, non sono un'antologia di momenti opachi e friabili. Gli istanti non sono sprazzi occasionali senza senso, su cui non fare affidamento. La quotidianità è la barca, ed è il viaggio. È lo specchio confuso di cui san Paolo parla nel celebre inno della Prima lettera ai Corinzi, ma è anche il luogo in cui si saggia la promessa di una visione nitida. Per questo la nostra quotidianità ci esige di aprire gli occhi per davvero. E di assumerla come nostra preghiera, oggi» (Avvenire, 5 novembre 2020). Che cosa dobbiamo fare? Lo imparo dal dialogo tra due padri del deserto: «L'anziano padre Mosè chiese all'anziano padre Silvano: "È possibile fare ogni giorno un nuovo inizio?". Il vegliardo rispose: "Se ci si dà da fare, si può fare un nuovo inizio anche ogni ora"». |