Omelia (22-12-2024) |
don Andrea Varliero |
Madri e Padri del nostro Signore Una scena semplice, niente di straordinario, vita quotidiana: sulla porta di casa due donne in dolce attesa si salutano e si abbracciano. Quattro vite in tutto, due madri e due bambini: ridono, scherzano, si mettono a cantare, si abbracciano e si accarezzano gli uni gli altri. Tutti e quattro sono in attesa: la donna anziana attende un figlio dopo tanti anni, è al sesto mese della gravidanza. Ormai non ci sperava più. La donna giovane attende di capire che cosa le stia capitando, pochi giorni fa la vita le è stata stravolta, i sogni di una vita tranquilla e nascosta segnata verso il matrimonio sono caduti in frantumi. Due bambini attendono di nascere, due bambini difficili da decifrare, figli arrivati dal silenzio e dall'impossibile. Uno muove i calcini sul grembo, si mette a ballare nella pancia della mamma, un ballo e una danza di gioia, fa sorridere il suo impeto dal di dentro. Giovanni è il suo nome: significa «Dio ha aggiunto grazia su grazia». Sua madre è una donna anziana, i segni delle rughe sono sul suo volto, viene chiamata con un nome bellissimo, Elisabetta: «ti confermo che il mio Dio è fedele, posso garantire per lui». Posso unicamente intuire quello che portava nel cuore quella donna: tante umiliazioni, tanto dolore, tanto non detto per il non poter essere mamma. Eppure, la vita è entrata in lei, ha potuto gioire di una maternità non prevista, ormai riposta nel cassetto del rimpianto. Ci indica qualcosa di bello: siamo sempre madri, sempre siamo padri, anche se non abbiamo generato figli nel corpo. Elisabetta non ha mai smesso di essere madre, neanche prima che Giovanni nascesse. Ha continuato ad essere quella speranza che portava fin da giovane. Questa donna anziana è anche figura del suo popolo, figura di una speranza e di un'attesa che si potranno compiere. Per favore, lasciamo sempre una porta aperta, non avveleniamo i nostri cuori il veleno del «tanto, ormai», non spegniamo mai quella piccola luce di speranza, in nome della realtà. Che cos'è la realtà? È oltre, è sempre oltre l'apparenza e la disillusione. Trovo essenziale questo incontro di vita, per tre annotazioni. La prima è che si riconoscono. Maria di corsa è salita sui monti per avere una risposta, pietrificata dall'Annuncio. Chiede che cosa significhi il sussurro, il silenzio di un angelo. Ha bisogno di un volto e di una persona che possano confermarla. È Elisabetta, da donna a donna, a confermarla. Tutti noi abbiamo urgenza di essere confermati. Di non darci per scontati, ma di essere riconosciuti, visti e ascoltati. Abbiamo bisogno di qualcuno che possa dire di noi. Essere riconosciuti, non per il successo, non per una gratificazione personale, non per aumentare il nostro "io", ma per portare più vita, per essere generativi. Chi ci ama, ci riconosce tra milioni di volti. Riconoscere. La seconda è il saluto: «Tu sei benedetta». La bellezza di dire una parola buona a chi bussa alla porta. La bellezza e la bontà di dire bene dell'altro e dell'altra, invece di cercarne unicamente il difetto e la fragilità. Elisabetta dice bene di Maria. In questi giorni di continui brontolamenti, in questi giorni vecchi di mormorazioni, in questi tempi di parole minacciose contro l'altro, in questo continuo flusso che denigra, sospetta, sentenzia, uccide, il Vangelo entra con una semplicità disarmante. Tu sei benedetta, tu sei benedetto. Tu, fratello, tu sorella, sei volto di benedizione per me. Quando entro e quando accolgo, anche se a volte è faticosa, è sempre una benedizione che accarezza la vita. La terza è la gioia. La gioia di un bambino che danza nudo come re Davide davanti all'arca che entra in Gerusalemme; la gioia di cantare insieme, la gioia di abbracciarsi, la gioia di essere beati perché si è creduto ad un Dio che viene non a punire, né a condannare, né a rubare, né ad uccidere, né a vendicarsi, ma entra nel mondo come vita, fragile vita. La gioia sembra semplice, ed è certamente l'espressione di un cuore semplice, ma il nostro cuore non è per niente semplice. Nel cuore stanno così tanti fili mescolati che troppe volte diciamo il contrario di quello che desideriamo. La paura di essere rifiutati con il bisogno di sentirci amati; la paura di fallire e di perdere, impastati con un orgoglio incongruente; il terrore dell'abbandono con l'incapacità di comunicare ciò che in noi è più profondo. È possibile la gioia? Queste due donne e questi due bambini me lo insegnano: ringraziano e non si lamentano; sentono i mille profumi dell'esistenza e si inebriano di essi; vedono la bellezza non soltanto con gli occhi, ma a soprattutto con il cuore. La madre del mio Signore: insieme a Lei, anche noi possiamo essere madri e padri del nostro Signore. (don Andrea) |