Omelia (21-01-2025)
Missionari della Via


Ci sono persone che vivono una vita di fede piena di sensi di colpa, perché spesso le regole diventano motivo di rigidità anziché di apertura all'amore. Per chi è eccessivamente schematico è difficile comprendere come si possa rimanere intrappolati in schemi apparentemente impeccabili ma privi di amore. La rigidità rende normale solo quello schema ripetitivo, quella modalità sempre utilizzata che fa sentire sereni. Il Signore, invece, ci invita a farci guidare dall'amore prima di tutto, dal Vangelo prima di tutto. La vita di Cristo, infatti, è proprio la rivelazione di ciò che è amore, di ciò che vale realmente per la vita di una persona di ogni tempo. Anche se nessuno ce lo dicesse lo sappiamo perfettamente che l'amore viene al primo posto, è scritto nei nostri desideri, nei nostri pensieri: tutti vogliamo essere amati. Eppure, spesso l'amore quando si traduce in leggi per custodirsi può estremizzarsi, chiudersi; non sono più le leggi a custodire l'uomo ma l'uomo si mette a custodire le leggi, a trovare cavilli per sentirsi a posto senza dover morire d'amore. L'amore infatti porta a una morte di noi stessi, a fare spazio all'altro, a superare la giustizia legalistica. L'amore ci rende capaci non solo di fare quello che è giusto ma di perdere per dare all'altro, a colui che è soggetto del nostro amore; l'amore ci rende fragili. Dio, perciò, nella sua onnipotenza è capace di farsi infinitamente piccolo, di perdersi, di nascondersi, di prendere su di sé i nostri peccati. Ecco la sua signoria: il creatore diventa Signore del sabato, pone l'amore al di sopra di tutte le leggi, ci porta al cuore della domanda: cosa conta davvero nella vita? Cosa conta davvero in quello che fai?

«La legge tutta è preceduta da un "sei amato" e seguita da un "amerai". "Sei amato" è la fondazione della legge; "amerai", il suo compimento. Chiunque astrae la legge da questo fondamento amerà il contrario della vita» (Paul Beauchamp).

Il candore della martire sant'Agnese

Il culto di Agnese risale al IV secolo. Dalle fonti più antiche si può ricostruire a grandi linee la storia della santa. Era una fanciulla di dodicitredici anni, come ha confermato l'analisi anatomica del suo capo conservato nella chiesa di Sant'Agnese in Agone. Così giovane non aveva il dovere di presentarsi alle autorità, come ordinava il quarto editto di Diocleziano nel marzo del 304, imponendo a tutti i cristiani di sacrificare pubblicamente agli dei. «Erano tutti stupefatti che si presentasse a rendere testimonianza di Dio proprio lei che non aveva neppure raggiunto gli anni per disporre di sé» riferisce sant'Ambrogio. Agnese lo fece spontaneamente. Quanto al martirio, Damaso parla del fuoco mentre Ambrogio allude alla morte con la spada («piegò il capo»): la seconda sembra la tesi più convincente perché le ossa non recano traccia di combustione.

Secondo una consuetudine plurisecolare nella basilica di Sant'Agnese fuori le mura il 21 gennaio, in occasione della festa della santa, vengono benedetti sul suo altare due bianchi agnellini, allevati dai monaci trappisti delle Tre Fontane. Trasportati nel Vaticano, gli agnelli sono poi offerti al pontefice, che a sua volta li affida alle monache del monastero di Santa Cecilia a Trastevere. Con la loro lana, le monache tessono i sacri pallii che saranno benedetti dal papa sulla tomba di San Pietro, la sera del 28 giugno, vigilia della festa dei santi patroni di Roma Pietro e Paolo. I pallii sono quelle strisce di lana con delle croci ricamate che il pontefice dona agli arcivescovi metropoliti, e si indossano sulle spalle a ricordare la pecorella smarrita che il Buon Pastore mette sulle spalle per ricondurla al gregge (cf NICA FIORI, Associazione culturale Etgraphiae, Roma 24 gennaio 2021,).

La martire Agnese, il cui nome ricorda l'agnello, simbolo di purezza e di sacrificio è dunque per la chiesa un simbolo del dono di sé con la caratteristica purezza che questa santa ci ha manifestato; perciò, il papa fa dono ai vescovi metropoliti di un pallio prodotto con la lana di agnelli posati sull'altare di sant'Agnese. Alcuni abiti e simboli utilizzati dal papa, dai cardinali, dai vescovi, dai sacerdoti e diaconi, sono segni che richiamano alla chiesa dell'origine e hanno un significato profondo di donazione totale al Signore e ricordano il legame con gli apostoli. La ricchezza di testimoni della fede arricchisce la simbologia utilizzata nella liturgia.

«Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un'immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita - questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio. Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica - magari in modo anche doloroso - e così ci conduce a noi stessi. In tal modo, non serviamo soltanto Lui ma la salvezza di tutto il mondo, di tutta la storia. In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d'agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita [...] Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova. "Pasci le mie pecore", dice Cristo a Pietro, ed a me, in questo momento. Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire»
(Benedetto XVI, omelia della Messa di inizio pontificato, 24 aprile 2005).