Omelia (06-03-2006) |
mons. Vincenzo Paglia |
La scena è grandiosa: Gesù, nella funzione regale, è seduto sul trono con "tutti i suoi angeli". Davanti a lui, come in un immenso scenario, sono raccolte "tutte le genti". Tutti: cristiani e non cristiani, credenti e non credenti. C'è una sola divisione tra loro: il rapporto che ognuno ha avuto con il Figlio dell'uomo che è presente in ogni povero. Il giudice stesso, infatti, si presenta come l'assetato, l'affamato, il nudo, lo straniero, il malato, il carcerato. "Ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere." Il dialogo tra il Re egli interlocutori dei due gruppi mette a fuoco questo aspetto sconcertante: il giudice glorioso della fine dei tempi, che tutti gli interlocutori riconoscono come "Signore", aveva il volto di quel barbone che chiedeva l'elemosina lungo i marciapiedi delle nostre città, di quell'anziano sbattuto nel cronicario, di quegli stranieri che bussano alle nostre porte, e così oltre. L'elenco potrebbe essere prolungato da ognuno di noi, magari solo descrivendo gli incontri che ci capitano lungo una giornata. La monotona ripetizione delle sei situazioni di povertà (si ripetono per ben quattro volte, in pochi versetti), con il rispettivo elenco delle opere prestate o negate, sta forse a indicare il frequente ripetersi di tali situazioni nella vita di ogni giorno. Questo Vangelo viene a dirci che il confronto decisivo (decisivo perché su questo saremo giudicati in maniera definitiva) tra l'uomo e Dio non avviene in una cornice di gesti eroici e straordinari, bensì negli incontri di tutti i giorni, nel porgere aiuto a chi ne ha bisogno, nel dare da mangiare e da bere a chi ha fame e a chi ha sete, nell'accogliere e proteggere chi è abbandonato. L'identificazione di Gesù con i poveri - li chiama anche suoi fratelli - non dipende dalle loro qualità morali o spirituali; Gesù non si identifica solo con i poveri buoni e onesti. E' un'identità oggettiva; essi sono il Signore perché poveri. |