Omelia (28-03-2006)
mons. Vincenzo Paglia


Vi era in Gerusalemme una piscina, chiamata Betzaetà (che significa "casa della misericordia"), davanti alla quale solitamente si radunavano molti malati, in attesa di un angelo che agitasse l'acqua della piscina. Non bastava l'acqua, c'era bisogno di un angelo la agitasse. E chi riusciva ad entrare veniva guarito. Tutto ciò era in figura. Ma in quel giorno stava venendo in quella piscina il vero angelo, colui che sa trasformare la tristezza in gioia, la debolezza in forza. C'era in quel luogo un paralitico, malato da trentotto anni (oggi diremmo un malato "cronico") che stava lì senza che nessuno lo aiutasse, appunto come capita ancora oggi in tanti luoghi di dolore. La disperazione ormai lo divorava al punto che si era rassegnato alla malattia. L'indifferenza degli altri gli aveva tolto ogni speranza. Gesù, invece, si ferma accanto a lui e gli parla. Man mano che Gesù parla costui sente rinascere la speranza, sente riaprirsi il cuore. Confida a Gesù l'amarezza causata da anni di delusioni: nessuno l'ha mai aiutato a immergersi nella piscina quando l'acqua si agitava. Quando si è soli è più difficile guarire, come ben sanno i tanti malati lasciati soli. Con Gesù (e con i suoi discepoli) è arrivato l'angelo (gli angeli) che muove il cuore e le membra di quell'uomo: "Alzati, prendi il tuo giaciglio e cammina".