Omelia (23-06-2003)
padre Lino Pedron
Commento su Matteo 7, 1-5

L'imperativo "Non giudicate, per non essere giudicati da Dio" suona come un principio assoluto. Solo Dio può decidere del destino di ogni uomo. Anche la doverosa correzione fraterna può essere fatta solo nella consapevolezza del proprio peccato.

Per natura siamo più portati a giudicare i difetti degli altri che a correggere i nostri.

Dio pronuncerà su di noi lo stesso giudizio che noi pronunceremo sul prossimo e ci misurerà con la stessa misura con cui noi misuriamo gli altri.

Il rigore e lo zelo sono spesso il contrario della compassione e della misericordia, che sono le virtù tipiche del cristiano, e quindi possono essere manifestazioni di mancanza d'amore ed espressioni di cattiveria.

La psicologia ci insegna che i difetti altrui che più ci irritano sono normalmente proprio i nostri difetti che detestiamo negli altri invece che in noi stessi.

Il fariseo ipocrita che sale al tempio a pregare non solo si vanta di essere pio e osservante, ma si sente in dovere di disprezzare tutti gli altri uomini che egli giudica ladri, ingiusti e adulteri (Lc 18,9-14).

Nessuno deve giudicare l'altro, perché deve ritenerlo superiore a sé (Fil 2,3). Il giudizio appartiene solo al Signore perché a lui appartengono tutti gli uomini. L'apostolo Paolo ha scritto: "Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone; ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare" (Rm 14,4).