Omelia (30-03-2025) |
don Andrea Varliero |
Come finirà la parabola? Un uomo aveva due figli: nel cuore della Quaresima entriamo nella più bella tra le parabole. Oggi la rivivo attraverso un dipinto, «Il ritorno del Figliol Prodigo», capolavoro di Rembrandt, di casa al Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo. Alcuni particolari mi aiutano: gli occhi quasi ciechi del vecchio, tanto si sono sfiniti a fissare oltre l'orizzonte. Le mani di quel vecchio diverse una dall'altra: una è maschile, callosa e imbrunita, ma l'altra è delicata e rosea, più protesa in avanti, una mano femminile. Due mani insieme, il maschile e il femminile, il paterno e il materno: ecco la Misericordia. Il mantello rosso: è una tenda che cammina insieme all'uomo, un rosso di passione e di carità che tutto avvolge. Ecco la tenda della Misericordia. Il figlio errante è tornato a casa: ridotto vestito di stracci, una storia sbagliata. La pianta di un piede è completamente nuda, screpolata e lacerata, mentre l'altro piede calza ormai brandelli di un sandalo. Un viaggio impossibile scritto sui piedi: saliti fino alla vetta del proprio narcisismo e scesi nel più desolato e avvilente squallore della solitudine. Piedi inciampati immense volte nei sassi dell'orgoglio. Pochi sono i capelli rimasti, sfibrati da una vita randagia: a ben guardare è la testa di un bambino. Sì, è come se fosse un bambino appena ripartorito dal grembo del padre: ecco la Misericordia, un ripartorirmi alla vita. Dalla penombra infiniti occhi increduli e furtivi, si sentono i sibili e i mormorii: sono i servi, i mezzi sorrisi, i pettegolezzi moltiplicati. Ritto, impietrito, livido di silenzio, sta il fratello maggiore. Assomiglia tantissimo al padre: il mantello è lo stesso, stessa è la nobiltà dei volti, eppure sono distantissimi, una distanza siderale. Quel figlio minore da sempre tocca in tutti noi «un punto unico, un punto segreto, un punto misterioso», piantato «come un chiodo di tenerezza». Qual è questo punto? È dove si insinua il dolore, la disperazione, l'inquietudine, la vergogna del peccato, il dubbio e la paura di esserci perduti; una cicatrice che «non si deve premere», perché fa male. Proprio lì, in quella ferita, entra la Speranza, «come una piccola suora dei poveri che non ha paura di maneggiare un malato», e lancia la propria sfida: «Dovunque andrai, io andrò». Lei, la Speranza, è come «un cane maltrattato, che torna sempre», perché ci insegna «che non tutto è perduto» (Charles Peguy). È lei, la Speranza, a sussurrare: «Mi alzerò, e tornerò da mio padre». Quel fratello maggiore so che cosa significhi: la responsabilità, il centro dell'attenzione, le ansie e le fatiche per il primo nato. E poi un minore a cui fare posto, imparare il linguaggio della fraternità. Condividere i giochi, gli spazi, le discussioni, la vita. È per lui, per il fratello maggiore, questa parabola. Per quel fratello maggiore che porto dentro, quando vivo da servo obbediente, per quando il cuore è altrove, per quando non amo quello che vivo. Per quando la vita tutto sembra, fuorché la festa di una famiglia. Un fratello maggiore alle prese con l'infelicità, un cuore di servo, quando invece «il segreto di una vita riuscita è amare ciò che fai, e fare ciò che ami» (Dostoevskij). Noi, fratelli maggiori, continuiamo a intonare Dio come un dovere, il più mortale tra i doveri. Noi, fratelli maggiori, siamo di casa nelle sue stanze, con il rischio di non averlo mai conosciuto, di non averlo mai ascoltato, di non averlo mai abbracciato. Noi, fratelli maggiori, siamo chiamati a combattere con la pretesa di una giustizia dovuta, di una ricompensa meritata, del giusto premio per la fedeltà alla causa. Nessun premio, quello che è mio è suo. Nessuna festa, se sono io il primo a non vivere di festa e di misericordia. Tra un figlio minore e un figlio maggiore, nessuno di loro si è reso conto del Padre. Nessuno dei due ha avuto il coraggio di chiamare l'altro fratello: «Dammi la mia parte!»; «Questo tuo figlio!». Entrambi, per vivere, hanno avuto urgenza di uccidere proprio lui, il padre. Hanno preferito fuggire, uno fuori di sé e l'altro dentro se stesso, pur di non rischiare a incontrare un Dio scandalosamente buono, che preferisce la felicità dei suoi figli alla loro fedeltà, che non è giusto, è di più, esclusivamente amore. Come finirà la parabola? Riuscirà a rimanere il figlio minore o la fragilità, l'inconsistenza, il richiamo della foresta, avranno la meglio? Abbraccerà il fratello maggiore quel fratello minore che gli ha fatto da specchio per tutto il dolore represso da una vita? Riuscirà il padre a mangiare insieme nella tavola dei figli? Ritornerà la festa in quella casa di solitudini? Non lo sappiamo, sta a noi scrivere il finale, sta alle nostre vite. |