Omelia (30-03-2025) |
don Alberto Brignoli |
Non c'è più giustizia... Oggi ho sentito parlare di un furfante, un poco di buono, colpevole di una serie di reati, portato in tribunale e sottoposto a giudizio. Le accuse? Bancarotta fraudolenta, falso in bilancio, furto aggravato, immigrazione clandestina, sfruttamento della prostituzione e tentato patricidio. Roba da carcere a vita, o quantomeno qualche decina di anni di reclusione. La sentenza è arrivata dopo pochissimi minuti di camera di consiglio. Il verdetto? Assoluzione piena. Assolto non perché il fatto non sussista, tutt'altro. Assolto con l'attenuante dell'incapacità di intendere e di volere. Incapacità di intendere cosa fosse bene per la sua vita e di riuscire a metterlo in pratica. Poi si è capito chiaramente perché sia stato assolto: il giudice era suo padre! Alla faccia del conflitto d'interessi! Qualcuno che s'è lamentato per questa cosa c'è stato: ma del resto, non si è potuto fare più di tanto, e nemmeno si potrà ricorrere in appello perché la sentenza è totale e definitiva. Le solite incoerenze della giustizia umana. Purtroppo (o per fortuna, visto che gli imputati siamo noi), neppure la giustizia divina pare essere da meno, in quanto a coerenza. Perché quel giudice-padre che assolve i suoi figli delinquenti solo perché hanno il rimorso non tanto di aver agito male, quanto di essere rimasti senza un soldo in tasca e affamati, altri non è se non il nostro Dio: misericordioso verso chi fa del male, e a volte poco riconoscente nei confronti di chi cerca, nonostante tutto, di comportarsi bene. Questo giudice, infatti, non ha tenuto conto delle legittime richieste del fratello dell'imputato (nonché suo primogenito), il quale, dalla bancarotta del fratello, è stato fortemente danneggiato. Danni morali, si intende, visto che "quello là" aveva dilapidato la sua parte di eredità: ma comunque sempre danni sono. "Con tutto quello che io in questi anni ho fatto per te, tu mi tratti così?": pare fosse questo il tono della recriminazione nei confronti del giudice-padre-padrone. Una frase pronunciata "fuori" dalla sede del tribunale (che tra l'altro era anche la casa del giudice...). Non è bello rivolgersi in quel modo al proprio papà: ma quando ci vuole, ci vuole. Perché va bene tutto, ma assolvere con formula piena e addirittura con gioia uno che ha il coraggio di chiedere perdono dopo aver fatto quello che ha fatto, senza imporgli nemmeno la minima pena o penitenza da scontare...eh, no! Non è per niente giusto! Chi sbaglia potrà anche essere moralmente perdonato, ma prima deve pagare. Anche se si tratta di un parente. Anche se si tratta di un fratello: anzi, sarebbe meglio dire dell'altro figlio di suo padre, perché fratello è una parola troppo impegnativa. L'altro figlio del giudice-padre-padrone non ha un fratello. Quello assolto è il figlio di suo padre, uno convintissimo da sempre, come lui, di aver diritto alla sua parte di eredità: ne ha tanto diritto che l'ha voluta prima ancora che il padre fosse morto, e non certo per potersi costruire il suo futuro, la sua attività. Lui non sa cosa sia un'attività in proprio: a lui piace farsi la sua vita, piace divertirsi, vivere di piaceri, non farsi mancare nulla in fatto di divertimenti, donne e sballo... facile, con i soldi di suo padre. Il classico figlio di papà: e infatti, lo definisce "questo tuo figlio", ovvero tutto, ma non suo fratello. Fosse suo fratello, sarebbe come lui: un fedele servitore del padre, anzi, del padrone. Fosse stato un grande lavoratore, avrebbe potuto veramente esigere al padre, insieme a lui, la propria parte di eredità. Il problema è che questo giudice-padre-padrone stravede per questo figlio delinquente. E sapete perché? Perché lui, a differenza di suo fratello maggiore, ha sempre chiamato il padre con il proprio nome, ovvero "padre". Sempre. Sia nel momento della prosperità iniziale, che nel momento in cui tocca il fondo, che nel momento in cui decide di ritornare a casa sua. Lui non rivendica nulla a suo padre: l'unica cosa che si permette di fare è di continuare a chiamarlo padre. Ed è questo ciò che il padre voleva sentirsi dire. Lui vuole essere chiamato "padre" anche da quei figli che lo vorrebbero morto per avere in eredità il mondo; lui vuole essere chiamato "padre" anche quando i figli non lo considerano più come tale, e preferiscono servirlo come un padrone, pur di avere un pezzo di pane da mettere sotto i denti. Questo padre, molto simile al nostro Dio, privilegia questa umanità: peccatrice, dissoluta, sperperatrice di beni, diseredata e disgraziata, eppure sempre e solo "figlia di Dio". A Dio non interessa avere dei figli perfetti, lavoratori incalliti, efficienti, fedeli, mai fisicamente lontani da lui, servitori irreprensibili, seri, duri ed esigenti con se stessi, mai dediti ai piaceri e alle feste, severi e austeri anche esteriormente, ma incapaci a chiamarlo con il suo nome: "Padre". A Dio non interessa sentirsi rinfacciare tutto quello che abbiamo fatto per lui, anche perché se lo facesse lui con noi stiamo fritti; e nemmeno gli importa dei peggiori errori che possiamo aver commesso nella vita. A lui importa che noi continuiamo a chiamarlo padre, e che siamo felici di credere in lui anche quando sbagliamo. E soprattutto, vuole che la smettiamo di vivere una vita di fede fatta di musi lunghi, di mormorii, di rivendicazioni, di doveri assolti e di atteggiamenti di rivalsa nei suoi confronti, perché non sa che farsene dei nostri mugugni o della nostra assoluta e totale obbedienza a lui. Obbedire a Dio come a un padrone, mormorando contro chi non lo fa; rinfacciargli ciò che abbiamo fatto per lui; richiamarlo ai suoi doveri di giudice severo nei confronti di chi sbaglia, non è ciò che Dio vuole da noi. O lo si ama con gioia, accettando che possa essere misericordioso e accogliente verso tutti, o è inutile dirci suoi figli. Abbiamo almeno l'accortezza di non rinfacciargli mai ciò che facciamo per lui, perché lui con noi non lo farà mai. |