Omelia (26-03-2006) |
don Fulvio Bertellini |
... hanno preferito le tenebre alla luce Giudizio impietoso Il giudizio non viene da Dio, ma dall'uomo. Non è Dio che condanna ("Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo"), sono gli uomini che "preferiscono le tenebre", vale a dire che preferiscono restare nelle loro "opere malvage". Come sempre l'evangelista Giovanni radicalizza il discorso, in una maniera che potrebbe sconcertare. In fondo, che cosa facciamo noi di tanto male? Se infatti pretendiamo di restare nel nostro ristretto punto di vista, non possiamo capire il discorso dell'evangelista. Occorre accettare invece di lasciarci interpellare proprio dal punto di vista dell'evangelista, lasciarci mettere in discussione. Sì, è vero: non facciamo nulla di così male, ma quel poco, piccolo male che ospitiamo nelle nostre vite e nelle nostre azioni è complice e partecipe delle tenebre del mondo. Operazione chirurgica Una ulteriore considerazione si impone: per togliere il male, per rischiarare le tenebre, per far passare dalla morte alla vita eterna, secondo l'evangelista, è stato necessario l'innalzamento del figlio dell'uomo: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il figlio dell'uomo". E' stata necessaria la croce, unica cura in grado di risanare, di estirpare in maniera radicale il male e il peccato. Compreso il piccolo, apparentemente insignificante peccato che alberga nella mia piccola vita. E che è complice del grande male del mondo. Della stessa qualità del peccato che, come un cancro, mina costantemente la storia dell'umanità. Dalla paura alla fiducia Non vogliamo però ulteriormente insistere sulla denuncia del peccato, contro la nostra tendenza a minimizzare: neppure questo è pienamente conforme al pensiero dell'evangelista, rivolto prevalentemente al positivo: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito...": più che convincere l'uditore del peccato, lo si vuole rendere partecipe di un grande evento di salvezza. "Perché chi crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna": credere in Gesù è partecipare alla salvezza di tutto il mondo. Al risanamento globale dal peccato. Credere in Gesù è forza di vita, che dà pienezza ad ogni nostra azione, anche la più piccola. Che cosa possiamo fare di buono? Il dubbio che può invadere l'esistenza dei cristiani, togliere respiro e speranza alla loro vita è infatti la tentazione dell'insignificanza: contagiati dalla mentalità di un mondo che guarda al successo, al risultato, alle classifiche, ci si ritrova nella stessa situazione di una squadra condannata alla serie B. Sembra di far poco, di non ottenere risultati, di aver accumulato solo fallimenti. Ci si concentra sulle poche cose che riescono bene, fino a dover litigare per imporci sugli altri, almeno in quelle; salvo poi dover ammettere anche lì la sconfitta. "Ho sbagliato tutto nella vita?" mi dicono spesso i genitori, parlando della condotta dei figli, che non corrisponde ai valori che hanno trasmesso, non solo a parole, ma anche con l'esempio. Stiamo sbagliando tutto? Lo stesso dubbio può corrodere la vita spirituale di ogni credente, quando sembra che il bene realizzato sia troppo poco, rispetto al male che domina nel mondo. Una luce di speranza Il messaggio di speranza che viene dal Vangelo di Giovanni è forte e potente: strappandoci quasi a forza dalle nostre prospettive limitate, ci fa scoprire la grandezza della posta in gioco. Ogni nostra esistenza, apparentemente limitata, può essere riflesso e trasparenza di una luce più grande, che squarcia le tenebre. "Chi fa la verità viene alla luce": la parola buona dell'evangelista ci fa appunto emergere in piena luce "perché appaia chiaramente" che le nostre "sono state fatte in Dio". Dall'innalzamento, dalla croce di Gesù ogni nostra azione può ricevere la stessa qualità di amore che si dona, partecipare della sua luce, che splende nelle tenebre. Flash sulla I lettura "Tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà": il brano si colloca al termine del libro delle Cronache con uno sguardo complessivo sulla storia di Israele. L'autore non può fare a meno di constatare che tutte le vicende di Israele e di Giuda sono state caratterizzate dall'infedeltà all'alleanza con Dio, provocando il disastro finale. "... ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio...": il fatto più grave, al di là del peccato che abbraccia tutto il popolo (capi, sacerdoti, uomini comuni: sono tutti coinvolti, anche se a livelli di responsabilità diversi; la colpa dei capi e dei sacerdoti è più grave, perché essi trascinano con sé tutto il resto della popolazione), è la resistenza alla parola che chiama alla conversione. La cura di Dio si manifesta con l'invio dei profeti, chiamati ad annunciare la sua parola, ad avvertire il popolo, a chiamarlo alla conversione. L'indurimento nella ribellione si esprime nel rifiuto di ogni rimprovero, di ogni cambiamento di rotta. L'esito finale di un popolo che ha rifiutato il suo Dio, il fondamento della sua identità, non può che essere la rovina e l'esilio. Ma che cosa può comunicare a noi oggi l'esperienza vissuta dall'antico popolo di Israele? Che ha a che fare con noi, dopo che si è compiuta la redenzione di Cristo? "Dice Ciro, re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli mi comanda di costruirgli un tempio...": gli ebrei deportati entrano in contatto con gli altri popoli. L'Esilio è una grande occasione di apertura universale, in cui anche gli altri regni della terra possono conoscere più da vicino il Dio di Israele. La catastrofe indicibile può acquisire una valenza positiva. L'autore delle Cronache esprime la sua convinzione attribuendo l'editto di Ciro al progetto del Dio di Israele, da lui chiamato "Dio dei cieli". A partire da quel momento Dio può essere conosciuto come Dio di tutta la terra, e l'esperienza dolorosa di Israele può essere condivisa con quella degli altri popoli: nel peccato di Israele si manifesta il peccato di tutti; il castigo che colpisce Israele è destinato anche alla correzione di tutti; nella ricerca di Israele si può riconoscere la ricerca di ogni famiglia umana verso l'assoluto. A partire dall'esperienza singola, storica, di Israele, è possibile per ogni creatura umana accostarsi all'unico salvatore, che libera dal peccato, che porta su di sé le conseguenze del peccato, che sazia la sete di Dio presente in ogni uomo. Flash sulla II lettura "Da morti che eravamo per i peccati...": possiamo notare come l'argomentazione paolina si incastri esattamente nel vuoto che resta aperto nella storia dei popolo eletto, presentata nella prima lettura: il dramma del peccato, la durezza delle sue conseguenze, la promessa di un futuro, di una nuova città, di un nuovo popolo, di un cuore nuovo per ascoltare la voce di Dio e realizzare le sue leggi. Quella però che era esperienza collettiva viene ora calata a livello individuale: la separazione da Dio, che si esprime con atti concreti di ribellione o indifferenza alla sua legge, è una vera e propria esperienza di "morte", non solo per il popolo, ma anche per il singolo. Chi opera nel peccato diviene schiavo del peccato, semina morte, divisione, odio, uccide insomma la sua capacità di relazione e, per usare un linguaggio evangelico, anche se "guadagna il mondo intero", rischia di "perdere la sua anima", il centro della sua persona e della sua capacità di entrare in comunione con i fratelli. "... ci ha fatti rivivere con Cristo": Ora la vita nuova è resa possibile dalla morte e risurrezione di Gesù. Che al di là di ogni nostro merito ("per grazia infatti siete stati salvati") ha preso su di sé le conseguenze del peccato, spezzando la catena dell'odio e della schiavitù. "... siamo infatti opera sua": la redenzione è paragonata ad una nuova creazione; solo a partire dal rinnovamento profondo è possibile realizzare le "buone opere che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo". |