Omelia (26-03-2006)
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* Tutta la rete familiare era rimasta come sospesa attorno al crescere mostruoso della malattia di Michele, così invadente, così irrimediabile. «Ho un cancro ai polmoni», aveva risposto lo zio, ancora nel vigore dei suoi anni, alla nipote ormai alle soglie dell'università.
Questo zio, che era il suo "mito", non se ne doveva "andare". Precipitatasi accanto a lui, aiutante attentissima della madre, non lo lasciava da alcuni giorni. E guardava allibita il succedersi della gente che veniva e veniva: i ragazzi del suo catechismo, i gruppi impegnati in oratorio. Lei stava lì incollata, registrava le sue lucidissime parole. Ma dovette ripartire. Era chiarissimo che non si sarebbero rivisti mai più. Lo zio, mentre si scambiavano il bacio dell'addio, le sussurrò all'orecchio: «Arrivederci». Lei alzò la testa con aria interrogativa. E lui - pazientemente – aggiunse: «In cielo. Senza fretta». Negli occhi spalancati dalla magrezza del volto era spuntato un sorriso vivacissimo. Nemmeno le lacrime, nemmeno il risentimento per la perdita ebbero il potere di cancellare quella sorridente promessa nel cuore della nipote.
Fu allora – raccontò ai "ragazzi dello zio" – che capì il senso delle parole del vangelo di Giovanni riferite al Figlio unigenito Gesù:
«Perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna».
Un tale senso non si esaurisce nella banale interpretazione del "basta avere fede e avrai la vita oltre la morte".

* Vediamo il contesto di questo brano evangelico: Gesù si sta rivolgendo a Nicodemo, un giudeo che è andato ad incontrarlo di notte, per rendersi conto di persona, ma senza esporsi, su chi era questo "personaggio". Gesù lo accoglie prendendo molto sul serio la sua ricerca e – in questa parte del dialogo – gli parla di sé come di colui che è stato donato/mandato dal Padre che «ha tanto amato il mondo». È una buona notizia: a noi verrebbe più facile denigrare il mondo e tutto l'orrore di dolore che comporta. Ma il Figlio è donato «perché chiunque crede in Lui non muoia». Ma di quale non-morte si tratta? Della pretesa di trovare il gene del non-invecchiamento? Del diritto di sottrarsi alla morte come scacco definitivo? Il morire terreno sulle labbra di Gesù è tutt'altra cosa: diviene il primo atto dell'essere innalzato. Questo verbo contiene due preziose sequenze: inizia con l'essere sollevato sulla croce e continua con l'essere glorificato, cioè con la vita donata dal Padre.

* Il "non morire" non è precisamente il continuare a vivere qui, ma è l'iniziare già da ora ad essere sollevato tra le braccia del Padre. Come Lui, così chiunque creda in lui. Anche lo zio Michele. Avere la vita eterna allora non è solo la vita dopo la morte, ma ricevere in dono già ora la vita divina, la vita innalzata, la vita nell'intimità con Dio. La condanna, la vera condanna, non è la morte terrena, ma l'autoesclusione dalla luce che è Gesù, per tramare nelle tenebre, per stare aggrappati alle opere «che erano maligne». Chi invece ama la luce testimonia che «le sue opere sono state fatte in Dio». Ciò non significa non sbagliare, affermarsi a provare la propria innocenza. La morte terrena di zio Michele, come la morte di ogni credente, rivela che egli aveva già puntato lo sguardo a Colui che è stato innalzato sulla croce. Lo aveva già guardato dal deserto della sua vita. Lo aveva guardato come Colui che salva. La morte terrena rivela che il credente, nella vita che gli è stata donata, è già a poco a poco innalzato, sollevato, preso tra le braccia del Padre che ama il mondo. Allora può dire «Arrivederci» a tutti quelli che si lasciano innalzare.

Commento da: M. Zattoni – G. Gillini, Interno familiare secondo Marco, San Paolo