Omelia (02-04-2006) |
mons. Vincenzo Paglia |
Se un chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo Siamo ormai alle soglie della Settimana Santa e il Vangelo di Giovanni pone sulle nostre labbra la stessa domanda che alcuni greci, presenti tra la folla dei pellegrini recatasi a Gerusalemme per la Pasqua, posero a Filippo e Andrea: "Vogliamo vedere Gesù". È una richiesta che facciamo nostra particolarmente in questi giorni. C'è una spiritualità dei giorni della passione, che è anzitutto non perdere di vista il Signore. In questa settimana è bene che i nostri occhi si fermino ogni giorno a leggere una pagina evangelica, magari della passione, per poter comprendere il cuore, i pensieri, i sentimenti e l'amore di Gesù. È un momento di grazia per ciascuno di noi. Quando Filippo e Andrea riferiscono a Gesù la richiesta dei due greci, egli risponde che è giunta la sua "ora". Quell'ora che non era ancora "arrivata" a Cana, che "stava venendo" nell'incontro con la samaritana al pozzo di Giacobbe, quella "ora" per cui era venuto sulla terra, stava per arrivare. È un'ora del tutto diversa da quella che aspettiamo noi, quella del trionfo, della riscossa, dell'affermazione di se stessi, della vittoria sugli altri. Per Gesù è l'ora della sua passione e morte. Non c'era mai stata per lui l'ora dell'interesse per sé, sebbene più volte avesse subìto la tentazione di fuggire il pericolo della cattura che vedeva avvicinarsi sempre più, oppure di allontanarsi da Gerusalemme come gli stessi discepoli più volte lo avevano esortato a fare. L'ora, ormai giunta, non era certo un momento facile per Gesù. Era anzi fortemente drammatica, tanto da fargli esclamare: "L'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! Padre glorifica il tuo nome". E decise di restare, anzi di entrare a Gerusalemme anche se questo gli sarebbe costato la morte. Ne era ben consapevole. Più volte l'aveva detto, scandalizzando anche i più vicini a lui. Nel tempio lo ripete a tutti i presenti, sotto forma di parabola: "Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto". Non gli era bastato venire sulla terra; voleva donare la vita sino alla fine. Peraltro queste parole ci riportano anche ai giorni della morte di Giovanni Paolo II e all'incredibile numero di persone accorse intorno a lui: era il frutto del suo amore senza limiti. Nella Lettera agli Ebrei abbiamo ascoltato: "Cristo, nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà". Tuttavia – ed è qui il grande mistero della Croce – l'obbedienza al Vangelo e l'amore per gli uomini erano per Gesù più preziosi della sua stessa vita. Non era venuto sulla terra per "rimanere solo", ma per portare "molto frutto". E l'unica via per portare frutto, ossia per raccogliere i dispersi, Gesù la indica così: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna". Sono parole che sembrano incomprensibili, e per certi versi lo sono; esse suonano talmente estranee al comune sentire da risultare indecifrabili dal punto di vista semantico. Tutti amiamo conservare la vita, custodirla, preservarla, risparmiarla dalla fatica; nessuno è portato ad "odiarla", come invece sembra suggerire il testo evangelico. Basti pensare alle cure che abbiamo per il nostro corpo al di là dell'ordinaria attenzione per la salute. Il Vangelo parla un altro linguaggio; potrebbe apparire duro, eppure a guardarci bene dentro è profondamente realista. Il senso dei due termini (odiare e amare) è da intendersi sulla scia della stessa vita di Gesù, del suo modo di comportarsi e di voler bene, del suo modo di impegnarsi, di pensare e di preoccuparsi. Insomma, Gesù ha vissuto tutta la sua vita amando gli uomini più di se stesso. La morte in croce rappresenta l'ora in cui questo amore si manifesta nella sua pienezza. Sì, la croce è l'ora della salvezza; potremmo dire che è il momento culminante dell'intera storia umana, il punto più alto di amore che l'uomo ha potuto e possa esprimere. E forse è proprio questa l'ora di cui parla la profezia di Geremia quando si prevedono "giorni nei quali il Signore concluderà un'alleanza nuova con la casa d'Israele e con la casa di Giacobbe"(Ger 31, 31). Sono poche parole, ma rappresentano uno dei vertici spirituali del Vecchio Testamento: l'antico patto del Sinai è superato dalla "nuova alleanza" che il Signore stabilisce con il suo popolo. Gesù stesso rievocherà durante l'ultima cena questa profezia di Geremia, quando definirà la coppa pasquale "il calice della nuova alleanza". Tale nuova alleanza non sarà più scritta su tavole di pietra ma nel cuore stesso degli uomini. E il primo cuore su cui essa è scritta è quello stesso di Gesù: sulla croce, squarciato dalla lancia, quel cuore effonde il suo sangue sino all'ultima goccia. Come restare distanti e freddi di fronte a tale amore? Come resistere ad una passione così alta d portare un uomo a dare tutta la sua vita sino alla morte in croce? Ecco perché Gesù può dire: "Quando sarò alzato da terra attrarrò tutti a me!" (Gv 12, 32). È la grazia che chiediamo in questi giorni per ciascuno di noi e per tutte le comunità cristiane. È la grazia che chiediamo anche per il mondo perché gli uomini, guardando quel volto crocifisso, si commuovano e possano scoprire che l'amore è più forte di ogni presunta forza umana, di ogni potere violento, di ogni egocentrismo. Da quella croce, da quel cuore squarciato, sgorga la fonte della salvezza per il mondo intero. |