Omelia (09-04-2006)
mons. Vincenzo Paglia
Da "Osanna" a "Crucifige"

Con la celebrazione delle palme si apre la grande e santa settimana della passione, morte e risurrezione del Signore. Non è solo un momento importante dell'anno liturgico, è la sorgente delle altre celebrazioni dell'anno. Tutte, infatti, si riferiscono al mistero della Pasqua da cui scaturisce la salvezza nostra e del mondo. Dal mercoledì delle ceneri la Parola del Signore, come in uno spirituale pellegrinaggio, ci ha preso per mano e ci ha accompagnato perché fossimo pronti ad accogliere il Triduo Santo. Nei giorni prossimi la Parola di Dio intensificherà la sua presenza in mezzo a noi perché i nostri occhi non si stacchino da Gesù. Sì, dobbiamo tener fissi i nostri occhi su Gesù che accetta anche la morte, pur di salvarci. Incontreremo i suoi occhi, affranti dal dolore ma sempre pieni di misericordia e di affetto, e li vedremo guardarci come guardarono Pietro che pure lo aveva tradito; e sentiremo nel profondo del nostro cuore un nodo di dolore e di tenerezza assieme. Possa ognuno di noi, in questi giorni, avere il dono delle lacrime come l'ebbe il primo degli apostoli quella sera del tradimento, affinché anche noi ci accostiamo nuovamente al Signore e iniziamo a seguirlo con un cuore nuovo.

Questi santi giorni si aprono con la memoria dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme. Il viaggio, iniziato dalla Galilea, sta per concludersi. L'ultima tappa è Betfage-Betania, sul monte degli Ulivi, come scrive il Vangelo di Marco (11, 1-10). Gesù manda avanti due discepoli perché procurino per lui una cavalcatura. Vuole entrare in Gerusalemme come mai aveva fatto prima. Fino a quel momento, infatti, si era tenuto come nascosto. Ora voleva entrare nella città santa e nel Tempio rivelando con chiarezza la sua missione di vero pastore d'Israele, anche se questo – e Gesù lo sapeva bene – lo avrebbe portato alla morte. Era il momento decisivo per la sua missione e per la sua stessa vita. Gesù non entra, però, su un carro come farebbe il capo di un esercito di liberazione, ma su un asino. Scrive il profeta Zaccaria: "Esulta, figlia di Sion! Fa sentire il tuo osanna, figlia di Gerusalemme! Ecco il tuo sovrano viene a te, umile, cavalcando un asinello, seduto su un puledro d'asina"(9, 9).

Gesù appare quindi come re, come il salvatore inviato da Dio per la liberazione del suo popolo. La gente sembra intuirlo, tanto che gli corre incontro per fargli festa: tutti stendono i mantelli al suo passaggio e agitano verdi rami di ulivo cantando: "Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore". È il canto di gioia che esprimiamo anche noi in ogni santa Liturgia assieme agli angeli mentre entriamo nel memoriale della cena del Signore. È la gioia che prende i discepoli e la folla ogni volta che il Signore si fa presente. È la stessa gioia che ebbe quella donna di Betania mentre era prostrata ai piedi di Gesù. È una gioia eccessiva? Qualcuno potrebbe pensarlo. I farisei, indispettiti da quella festa, chiedono a Gesù di far tacere i discepoli. Ma Gesù benedice la gioia di coloro che lo accolgono: "Vi dico che, se questi tacessero, griderebbero le pietre".

Gesù entra nelle città di questo nostro mondo mentre la vita degli uomini è tragicamente segnata da conflitti di ogni genere. Abbiamo bisogno di un liberatore. Gesù è il solo che può liberare gli uomini dalla guerra, dalla violenza, dall'ingiustizia. Il suo volto non è quello di un potente o di un forte, bensì di un mite ed umile di cuore che non è venuto a salvare se stesso ma gli altri. E ha fatto di questo lo scopo della sua vita. Passano pochi giorni da quell'ingresso trionfale in Gerusalemme e subito diviene il crocifisso, il vinto. È il paradosso di questa domenica delle Palme che fa vivere assieme il trionfo e la passione di Gesù.

La Liturgia, con la narrazione del Vangelo della passione proclamato dopo il Vangelo dell'ingresso in Gerusalemme, mostra il volto di Gesù che diviene crocifisso. Gesù è re, ma l'unica corona che nelle prossime ore gli viene posta sul capo è quella di spine, l'unico scettro è una canna e l'unica divisa è un manto scarlatto da burla. I rami di ulivo che in questa domenica sono il segno della festa, fra qualche giorno, nell'orto del Getsemani, lo vedranno sudare sangue per l'angoscia della morte. Gesù non fugge da Gerusalemme, accetta la croce e la porta sino al Golgota, ove viene crocifisso. Tutto sembra finito per lui: non può più né parlare né guarire. Quella morte, agli occhi dei più, sembrò una sconfitta. In realtà era una vittoria: era la logica conclusione di una vita spesa per il Signore, per il Vangelo, per i discepoli, per i poveri.

Davvero solo Dio poteva vivere e morire in quel modo, ossia dimenticando se stesso per donarsi totalmente agli altri. E se ne accorse un militare pagano. L'evangelista Marco scrive: "Il centurione, vistolo spirare in quel modo, disse: Veramente quest'uomo era il Figlio di Dio!". E Dio, Padre buono, risuscitò il suo Figlio. Non permise alla morte di vincere. La vittoria dell'amore di Dio sulla morte continua a guidare ancora oggi quel piccolo corteo di discepoli che si raccolgono sotto le tante croci di oggi e avvolgono i corpi crocifissi con il lenzuolo della misericordia e dell'amore. Il male e la morte non sono l'ultima parola. I discepoli di Gesù continuano ad amare i poveri, i vinti, i malati, i sofferenti, gli anziani, quelli che non hanno nulla da dare in cambio, perché l'amore vince il male e la morte.