Omelia (14-04-2006)
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* Con questa Liturgia entriamo in quello che è stato chiamato " il Giorno più santo" e realmente è tale se lo prolunghiamo fino al mattino della Resurrezione. In esso, infatti, la Storia della salvezza ha raggiunto il suo vertice, perché ha trovato compimento il divino disegno della redenzione dell'umanità. Veramente il tentativo di commentarne la Liturgia può essere compiuto "togliendosi i sandali perché questa è terra sacra" (Es 3,6).

* Una prima precisazione. Il Triduo sacro dopo la solenne introduzione della Domenica delle palme, ha inizio con la Liturgia 'in Cena Domini' del Giovedì Santo che attualizza quanto Gesù stesso ha compiuto, cioè l'azione sacramentale con la quale e nella quale anticipava la sua morte-risurrezione di cui ogni nostra celebrazione eucaristica è l'attualizzazione posticipata nel tempo.
Soffermiamoci brevemente su alcuni particolari dell'ultima cena com'è raccontata da Giovanni, perché in quell'Ora mentre anticipa appunto la sua imminente passione e morte (oltre alla risurrezione, come abbiamo detto), il Signore nei gesti e nelle parole svela con quale atteggiamento interiore affronterà nel giorno seguente gli avvenimenti, con quale scopo e quindi quale ne è il significato.

* Anzitutto la sua sovrana libertà, simbolicamente evidenziata dal gesto con cui Gesù depone le vesti e le riprende. Infatti Giovanni usa gli stessi verbi adoperati in 10,17-18 dove appunto il Signore Gesù solennemente afferma: "Liberamente do la mia vita...e liberamente la riprendo".
La lavanda dei piedi. Il gesto più umile dell'ultimo schiavo verso il padrone, compiuto da Gesù dice eloquentemente il suo amore oblativo totalmente gratuito - l'agape divino - che lo muove verso il dono totale, assoluto della sua vita sulla croce.
Lo scopo di questo suo dono da Giovanni è chiaramente detto all'inizio del cap.13: "Gesù dopo aver amato i suoi che sono nel mondo, li amò sino alla fine (in greco: eis telos = in modo perfetto, assoluto, totale), e al cap 14,31:... "perché il mondo sappia che io amo il Padre, su alziamoci, andiamo". Ambedue queste affermazioni vanno lette nel contesto di un'altra sua parola che in qualche modo le introduce: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15.13).

* Dunque, il Signore ha accettato liberamente la morte come espressione d'amore perfetto, totale, "usque in finem", in obbedienza alla volontà del Padre e del suo disegno di salvezza per l'umanità, e perciò come amore altrettanto totale per gli uomini. Così è salito sulla croce e vi è morto, trasformando la morte nel più puro atto d'amore. Il Papa Benedetto XVI con scultorea espressione parla di potente "fissione nucleare dell'amore" (cf. omelia nella celebrazione eucaristica di chiusura della GMG) perché non soltanto sconfigge il male, ma lo trasfigura in sorgente di vita. La risurrezione, risposta del Padre al donarsi d'amore obbediente del Figlio, è l'apice di questa trasfigurazione.

* L'azione liturgica del Venerdì Santo ha la stessa valenza attualizzatrice di quella del Giovedì Santo, cioè comprende anche la risurrezione, pur con la forte e sembrerebbe quasi esclusiva sottolineatura della passione e morte del Signore. Questo viene evidenziato dal canto d'introduzione all'adorazione della Croce:
Adoriamo la tua Croce, Signore,
lodiamo e glorifichiamo
la tua santa risurrezione.
Dal legno della Croce
è venuta la gioia in tutto il mondo.


* E' un particolare molto significativo da tenere presente in tutta la celebrazione, come in ogni altra celebrazione liturgica, dove, qualunque sia la particolare accentuazione, sempre viene celebrato, cioè attualizzato l'unico Mistero Salvifico, che tutta riassume la Storia della salvezza: la morte-risurrezione del Signore Gesù.

* La liturgia odierna è straordinariamente ricca. Il tentativo di una breve sintesi quale sarebbe richiesta dalla natura di questo sussidio, diventerebbe grandemente riduttivo. Ci sia consentito perciò di limitare la nostra adorante riflessione sull'Evangelo che è il racconto della passione del Signore secondo il quarto evangelista.
Pur essendo molto vicino all'identico racconto dei Sinottici, Giovanni, come in tutto il suo Evangelo, mette in pieno rilievo la portata simbolica degli avvenimenti.

* Osserviamo anzitutto una serie di omissioni molto significative. Nulla viene detto dell'agonia di Gesù al Getsemani, del bacio di Giuda, della fuga dei discepoli, del processo davanti al Sinedrio. Nulla è detto degli oltraggi in casa del sommo sacerdote e alla corte di Erode, né degli scherni degli spettatori davanti alla croce. Non vi è menzione del grido di sconforto di Gesù, delle tenebre sulla terra al momento della morte del Signore e neppure della tragica fine di Giuda.
Sono troppi silenzi perché non siano eloquenti di una precisa interpretazione degli avvenimenti, confermata dal fatto che soltanto Giovanni ricorda l'impressione di maestà che Gesù fece su coloro che venivano ad arrestarlo, il dialogo con Anna sulla sua dottrina e ancor più il particolareggiato racconto del processo romano davanti a Pilato con la scena così significativa dell'Ecce Homo e dell'Ecce Rex vester. Infine soltanto Giovanni riferisce la discussione sul cartello da affiggere sulla croce, la citazione del salmo 21 come interpretazione della divisione delle vesti del Signore, la presenza della madre Maria e del discepolo prediletto ai piedi della croce e il colpo di lancia che fece uscire sangue ed acqua dal costato di Gesù.

* Una sottolineatura del tutto particolare, propria del linguaggio giovanneo: un istante prima della morte Gesù pronuncia il suo "consummatum est", tutto è compiuto, il disegno del Padre per la salvezza dell'uomo, che il Figlio aveva il compito di effettuare, si è definitivamente realizzato. E subito dopo, con una di quelle formule dal doppio significato tanto frequenti in Giovanni, è detto: "Gesù rese lo spirito", inaugurando con la sua morte il periodo definitivo della Storia della salvezza, il tempo della effusione dello Spirito.

* Il solo elenco di tutti questi particolare mette in evidenza il significato 'teologico' della morte del Signore. Vengono taciuti tutti gli elementi tragici e umilianti. Tutto bagna nella luce del compimento dell'opera della salvezza. Gesù è glorificato nella sua morte, come del resto Lui stesso aveva predetto: "Ora è il giudizio di questo mondo; ora il Principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io quando sarò elevato da terra attirerò tutto a me" (Gv 12, 31). La sua glorificazione consiste nella fecondità del suo sacrificio e nell'efficacia della sua opera, resa possibile appunto dalla sua entrata nella gloria del Padre.

* Tutti gli esegeti sono d'accordo nell'affermare che a differenza dei Sinottici e di altri scritti neotestamentari, Giovanni vede già sulla croce l'esaltazione di Gesù nel senso di una intronizzazione regale alla destra del Padre, e la signoria sui suoi fedeli, nel comunicare lo Spirito e nel dono della vita. L'evangelista anticipa tutto questo nella passione e morte di Gesù perché il suo profondo sguardo contemplativo di fede vi scopre il frutto per la salvezza del mondo.
Per questo evangelista la croce di Gesù è la rivelazione suprema dell'amore del Padre per l'uomo. Questo spiega la sovrana libertà del Signore e la sua perfetta consapevolezza. Egli compie l'opera della salvezza non come una vittima impotente e rassegnata, ma nell'atteggiamento sovrano di colui che conosce il senso degli avvenimenti e li accetta liberamente in obbedienza d'amore.

* A conclusione di questa meditazione - che vorrebbe essere 'orante' - per lasciarci coinvolgere spiritualmente nella celebrazione liturgica, ricorriamo ad uno scritto di Josef Ratzinger, oggi il S.Padre Benedetto XVI, che ci permette di approfondire ulteriormente quanto stiamo dicendo. Ci aiuta a coglierne tutta la ricchezza spirituale come cristiani i quali sanno che la partecipazione alla celebrazione della Liturgia deve coinvolgere esistenzialmente in quello che viene celebrato, sempre, ma in modo del tutto particolare in questa solenne Liturgia del Venerdì Santo.

* "L'ombra della croce non oscura soltanto l'ultima settimana della vita di Gesù, ma grava con evidenza crescente su tutto l'ultimo periodo del suo insegnamento in Israele. Gli studiosi credono di poter rilevare un momento decisivo che viene indicato sotto la denominazione di 'crisi galilaica'. Questo si manifesta soprattutto nel Vangelo di Giovanni che per quanto riguarda l'argomento coincide con i Vangeli Sinottici. Secondo il Vangelo di Giovanni il miracolo della moltiplicazione dei pani porta con sé una vera e propria crisi. Al termine del grande discorso di Gesù assistiamo infatti all'allontanamento dalla fede da parte delle masse. Rimangono fedeli al Signore soltanto i Dodici, che nella persona di Pietro confessano la loro fede. Il Vangelo di Giovanni riferisce ancora due tentativi di lapidazione (8,59 e 11,39). Ciò significa una specie di scomunica lanciata contro Gesù da parte della Sinagoga. Da questo momento egli si tiene preferibilmente nascosto. E' un reietto, un condannato...
Questa crisi improvvisa produce i suoi effetti sulla natura del suo messaggio. Egli non parla più alle masse, ma il suo insegnamento si concentra invece sui discepoli....Si avvierà verso Gerusalemme per celebrare là, come tutto il popolo di Israele, la cena pasquale e per attendere la sua Ora che per Lui doveva essere l'Ora della croce.
La sua risposta al rifiuto del popolo è racchiusa nel concetto di "per", cioè dell'individuo che rappresenta tutti gli altri. Il 'contro' degli altri ha il suo corrispondente nel "per" di Gesù. Quel "per molti" con cui interpreta il significato della sua morte nell'ultima cena, è il punto di partenza e la vera origine della Chiesa. Questo motivo essenziale, cioè il fatto che non potendo conquistare direttamente gli uomini con il suo invito, ne assume il loro destino rappresentandoli tutti e morendo per loro, è il nocciolo dell'idea del "Servo di Dio" che troviamo in Isaia (cf. I Lettura), e contemporaneamente il vertice del concetto di popolo di Dio che troviamo nell'AT. Nell'immagine del Servo di Dio ripudiato e reietto che espia le colpe degli altri dopo essersele addossate, Israele aveva raggiunto la comprensione più profonda del significato di "Elezione", di "Alleanza" e di "Popolo di Dio". La Chiesa, che qui ha la sua origine vera e propria, non deve tenersi in disparte quale gruppo privilegiato di coloro che sono stati salvati, ma deve invece sempre rendere attuale e realizzare questo "per" (gli altri) che è stato sempre fin dall'origine la sua funzione storico-salvifica. Sempre permane la dialettica dei "pochi" e dei "molti". Tale dialettica ha il significato dell'uno verso l'altro e dell'uno per l'altro. Colui che non può essere raggiunto dal messaggio di Gesù, può essere invece raggiunto dall'amore inteso come servizio che viene assunto in continuazione del servizio di Gesù.
Ancora un'altra constatazione si può fare. La crisi galilaica muta l'atteggiamento di Gesù verso il suo popolo: non può conquistarlo con la chiamata diretta, ma seguendo la via della croce, sacrificandosi per esso. Ciò significa che anche la condizione di coloro che sono con Lui muta radicalmente. Rimanere con Gesù d'ora in poi significa essere in società con un rinnegato e condividerne la sorte. "Chi vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua". La parola 'croce' non rappresenta in primo luogo un'idea morale, cioè le croci che sono nella vita di ciascuno, ma rappresenta concretamente ciò che imitazione di Cristo significa all'insegna del fallimento del Figlio di Dio. Se si rimane in comunione con Gesù crocifisso si rischia il fallimento. Tutto ciò non è esaltazione del dolore in sé e per sé. La partecipazione al dolore acquista un significato soltanto quando si entra nella categoria di coloro che sono "per", quando si partecipa alle disposizioni interiori di Cristo 'servitore'."
(da AA.VV. La Chiesa ai nostri giorni, ed. S. Paolo 1967, p. 15s.)

* Osiamo proporre questa meditazione dall'accento così 'forte', chiedendo per ciascuno di noi la Grazia dello Spirito, la quale sola può farcene comprendere e accettarne la radicale esigenza.
E' quella che introduce l'inno Cristologico della Lettera ai Filippesi che è stata proclamata nella Domenica delle palme, quale solenne introduzione e sintesi del Mistero Pasquale:

Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù
il quale pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso
assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana umiliò se stesso
facendosi obbediente sino alla morte e alla morte in croce.
Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il Nome
che è al di sopra di ogni altro nome. perché nel Nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra
e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore
a gloria di Dio Padre.

(Fil 2,5-11).

Commento a cura delle Benedettine di Citerna