Omelia (29-03-2002) |
padre Raniero Cantalamessa |
Risplende il Mistero della Croce Oggi risplende su tutta la Chiesa il mistero della croce: "Fulget crucis mysterium". La liturgia ci ha proposto una certa visione della croce; nonostante tutti gli sforzi, essa rimane una visione dolorosa che fa leva soprattutto sui sentimenti di pentimento e di compassione. Nel momento culminante della liturgia odierna - nell'adorazione della croce -, la croce ci è presentata come "il legno a cui fu appeso il Cristo ". Nei canti che accompagnano il bacio della croce da parte dei fedeli (i cosiddetti improperia), Gesù si rivolge, in modo accorato, all'uomo peccatore dicendo: "Popolo mio, che male t'ho fatto? Che dolore t'ho dato? Rispondimi! ". E un momento altamente suggestivo della liturgia della Chiesa; ma quando lo si ripensa alla luce della tradizione cristiana antica> si avverte un disagio; non possiamo fermarci qui, cioè al dolore, alla compassione, e alla compunzione. Per le prime generazioni cristiane, la croce non era tanto " il legno in cui Cristo fu appeso", quanto " il legno sul quale Cristo regnò ": Regnavit a ligno Deus, dicevano adattando il versetto di un salmo (cf. SaI. 96, 10 in Giustino, I Apol. 41, 4). I pagani non riuscirono, con il loro sarcasmo, a spingere i cristiani a vergognarsi della croce: " Il Figlio di Dio è stato crocifisso? - esclamava uno di loro -; non me ne vergogno, proprio perché c'è da vergognarsene" (Tertulliano). Il nome stesso della croce - scriveva un famoso pagano che non aveva conosciuto Cristo - deve essere tenuto lontano non solo dalla carne, ma anche dai pensieri, dagli occhi e dalle orecchie dei cittadini romani; il solo discorrere di una morte da schiavi, cosi umiliante, in presenza di persone dabbene è cosa immorale e sconveniente (Cicerone, Pro Rabirio). San Paolo, per tutta risposta, scriveva ai primi cristiani: Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (Gal. 6, 14). Da lui, la Chiesa raccolse questo sentimento della croce vanto e lo tradusse in mille modi nella liturgia, nella teologia e nell'arte (cf. la croce trofeo e la croce gemmata). " Ogni altra azione di Cristo è motivo di vanto per la Chiesa cattolica, ma vanto dei vanti è la croce " (Cirillo di G., Cat. 13, 1). " Osserva la gloria della croce! - dice sant'Agostino - Essa ormai è stampata sulla fronte dei re; gli effetti ne provano la potenza; egli ha domato il mondo non con il ferro, ma con il legno" (sant'Agostino, Enarr. in Ps. 54, 12). I crocifissi antichi non esprimono angoscia, spasimo o tragedia, ma calma, maestà e regalità. Sulla croce - come aveva ripetuto tante volte l'evangelista Giovanni -' Gesù è glorificato, è innalzato, attira tutto a sé; in una parola: regna. La signoria di Cristo si rivela nella risurrezione, ma " poggia " sulla croce. La teologia più perfetta del Venerdì Santo è quella che ha tracciato Giovanni nell'Apocalisse: l'Agnello vi appare ucciso e in piedi, cioè morto e risorto; con solennità divina, egli prende il libro che nessuno poteva aprire - il libro della storia e dei destini umani - e ne scioglie ad uno ad uno i sigilli, mentre intorno si canta a gran voce: L'Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione (Ap. 5, 12). Cristo penetra ormai con la potenza del suo Spirito la Chiesa e il mondo; a tanto lo ha " innalzato " l'umiliazione e l'obbedienza della croce! (cf. Fil. 2, 7ss.). Qui non si tratta più, infatti, semplicemente del Verbo che, in principio, era Dio e per mezzo del quale tutte le cose furono fatte (cf. Gv. 1, lss.); si tratta di Gesù Cristo, del Figlio dell'uomo che, anche in quanto uomo e nuovo Adamo, ora è Signore del cielo e della terra; non è un semplice ritorno a ciò che era " in principio "; la croce segna una novità anche per Dio. Quale deve essere allora l'atteggiamento del credente in questo giorno? Immergersi nel dolore di Cristo, lasciarsene compenetrare e " impressionare "; ma non fermarsi ad esso. Il dolore è solo il segno; la realtà significata è il suo amore per noi. E di fronte alla prova suprema che Cristo ci ama (giacché " non c'è amore più grande che dare la vita per la persona amata"), non si può dare il primato alla compassione e neppure alla compunzione; il primato dev'essere dello stupore, della gratitudine e della gioia. Cosi Dio ha amato il mondo; Mi ha amato e ha dato se stesso per me: queste frasi di Giovanni (Gv. 3, 16) e di Paolo (GaI. 2, 20) sono frasi con punto esclamativo, esprimono stupore. Di fronte alla nostra compassione, Gesù potrebbe dirci: è tutto quello che sai darmi in risposta? Chi ama non vuole essere compatito, ma riamato: " Sic nos amantem, quis non redamaret?", diceva san Bonaventura; cioè: come non riamare uno che ci ha amato tanto? E Paolo: Se uno non ama il Signore merita di essere scomunicato (anatema sit) (cf. i Cor. 16, 22). Questa è la vera adorazione spirituale della croce che è adorazione della sua potenza salvatrice, ma anche dell'amore sconfinato di cui è segno. Gratitudine, amore, stupore dunque, ma anche speranza. Se Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Chi ci separerà dall'amore di Cristo? In tutte le cose, compresa la morte, noi ormai possiamo essere più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati fino alla croce (cf. Rom. 8, 31-37). Davvero, nel nostro cuore risplende oggi il mistero della croce! |