Omelia (07-05-2006)
don Fulvio Bertellini
Al di là dello sfruttamento

Non so se al mondo oggi esistano pecore allo stato brado, sganciate dall'allevamento umano. Certamente in Italia oggi una pecora selvatica non potrebbe vivere (a dire il vero, anche lupi ed orsi resistono a fatica). La relazione con il pastore è indispensabile al gregge: la parabola insiste molto sull'assoluta e inderogabile dipendenza delle pecore da colui che le guida; ma nello stesso tempo ci invita ad andare oltre il naturale legame di sfruttamento, per cui il pastore guida, protegge, sfama le pecore, e in cambio ne riceve lana, latte, carne, di cui vivere e con cui commerciare. Questa è piuttosto la figura del mercenario, di colui che sembra interessato alla salute delle pecore, ma in realtà cura soltanto i suoi interessi. Il punto discriminante è il momento del pericolo: non appena appare il lupo, il pastore a pagamento si dilegua.

Vita offerta e donata

Il buon pastore invece "offre la vita per le pecore". L'immagine evoca la Passione; nel racconto giovanneo in particolare il momento in cui Gesù dice ai soldati "lasciate che questi se ne vadano", per adempiere la parola "non ho perduto nessuno di quelli che il Padre mi ha dato". La Passione è il momento in cui realmente Gesù offre la vita per noi. Non soltanto perché muore al posto nostro, non soltanto perché muore per perdonare, invece di vendicarsi, ma soprattutto perché muore per risorgere: "ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo": attraverso la sua morte, Gesù può comunicare a noi la sua stessa vita, la vita divina, l'amore che lega il Figlio al Padre, la forza dello Spirito che il Figlio invoca e che il Padre dona.

Attraverso la conoscenza

La Passione e Risurrezione è anche il modo singolare con cui il buon pastore raduna il gregge: per attrazione, non per costrizione. Il mercenario deve necessariamente costringerle e irreggimentarle; il lupo le spaventa e le disperde per poterle catturare; il Buon Pastore procede per conoscenza personale, e le tiene unite solo con il suono della sua "voce". La relazione intima è l'unico modo autentico con cui si forma il gregge dei discepoli. Sbaglierebbero i vescovi, i sacerdoti, i catechisti, i genitori, e sbaglierebbe qualunque cristiano, se volessero propagandare, diffondere, coltivare la fede con gli stessi metodi del mercenario. Non è possibile educare alla fede con la seduzione. Non è possibile costringere alla fede. Non è possibile imporre la fede per i propri interessi personali. Non è però neppure possibile vivere la relazione con Cristo senza lotta: al di fuori dell'unico pastore, o si paga il prezzo dei mercenari, o va dritti a finire nella bocca del lupo (magari travestito da agnello)... o c'è una terza possibilità?

Altre pecore

Ci sono in effetti altre pecore. Qualunque ovile, qualunque recinto noi costruiamo non è mai abbastanza largo. Resta sempre qualcuno al di fuori che è in grado di accogliere la voce del pastore. Ma potrà ascoltarla da noi?


Flash sulla I lettura

"Pietro, pieno di Spirito Santo, disse...": il discorso di Pietro nasce dallo Spirito. Solo accogliendo la voce dello Spirito il cristiano può diventare autentico testimone e annunciatore del lieto messaggio della risurrezione.
"... veniamo interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo": in un altro passo lucano Gesù è descritto come colui che passò "sanando e beneficando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui". I discepoli proseguono l'opera di Gesù, diventano benefattori e guaritori come lui. Il rischio però, come per Gesù, è che chi osserva si fermi all'aspetto esteriore, appariscente, del miracolo, senza interrogarsi sul suo significato; in particolare, sul valore che PER TUTTI ha il miracolo.
"la cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo di Israele": il miracolo non è la pura e semplice guarigione del singolo, ma un messaggio rivolto a tutti. Quel Gesù che ha guarito il paralitico è la "testata d'angolo", il fondamento della salvezza, pur essendo "pietra scartata dai costruttori".
"In nessun altro c'è salvezza": la conclusione scandalosa di Pietro è che Gesù è salvezza per tutti. Addirittura "sotto il cielo" non c'è un altro "nome" in cui si possa essere salvati. Da un fatto singolo, localizzato, si passa ad una pretesa universale. Dalla guarigione di un solo infermo, si passa all'affermazione che per tutti Gesù è salvezza. Una salvezza di ordine diverso rispetto alla salute fisica.
Il brano degli Atti interroga fortemente la nostra chiesa mantovana, soprattutto riguardo alla sua capacità di predicazione e catechesi agli adulti. Quali "segnali singolari" ci è concesso di mettere in atto, con la fede nel risorto? Quali "benefici" avvengono attraverso le nostre mani, in favore dei più poveri, dei più deboli, dei più colpiti dalle avversità della vita? E in secondo luogo: abbiamo ancora il coraggio di osare ad affermare la "pretesa universale" del Risorto, salvezza per tutti? O abbiamo paura e ci rifugiamo in una "salvezza locale", al sicuro delle nostre chiese, delle nostre tradizioni popolari, dei nostri gruppuscoli elitari, che rischiano di non diventare mai fermento vivo?

Flash sulla II lettura

"Quale grande amore ci ha dato il Padre!": grande apertura contemplativa. Con sorpresa si constata la grandezza dell'amore di Dio, principio e misura di ogni amore umano. L'amore che ci rende figli attraverso l'incarnazione e la passione è l'unico termine di confronto con cui il nostro amore umano è chiamato a confrontarsi, a volte in maniera lacerante, invischiati come siamo in affetti, desideri, relazioni, compromessi, dipendenze affettive a cui troppo frettolosamente si dà il nome di amore. Troppo selettivamente infatti si guarda al germoglio di carità che è presente in quasi tutte le nostre relazioni: senza considerare le spine e le malerbe in cui lo lasciamo crescere, o meglio, soffocare. La contemplazione sorpresa dell'amore di Dio, nella preghiera, nell'ascolto della Parola, nella liturgia, è l'unico modo per allenarci a distinguere il vero amore anche nella nostra vita.
"La ragione per cui il mondo non ci conosce...": dalla contemplazione emerge, per contrasto, il campo di tensioni in cui siamo chiamati a operare. La prima tensione è nei confronti del mondo, che non riconosce la qualità dell'amore cristiano. E difatti "non ha conosciuto lui": non ha riconosciuto Dio stesso, e quindi si inventa una propria forma contraffatta di amore. Eppure (e qui sta la sopresa e la grandezza della rivelazione cristiana) "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito". La tensione nei confronti del mondo non si configura come ostilità e inimicizia, ma come richiamo all'autenticità e al ritorno.
"... ciò che saremo non è ancora stato manifestato": il secondo campo di tensione è all'interno stesso del credente e della comunità dei discepoli, che sperimenta continuamente la propria imperfezione, il fatto di essere in crescita, in cammino. Quel germoglio di amore, che abbiamo liberato dalle spine e dalle malerbe (ammesso che l'abbiamo davvero liberato, e non solo illusoriamente), deve ancora crescere, svilupparsi, essere irrigato, curato, protetto dalle intemperie... la vita divina che ci è donata deve crescere in noi fino al momento in cui "lo vedremo così come egli è": ma questo avverrà solo dopo la morte... che però non è nominata: si parla invece della "manifestazione" del Risorto. Il termine della vita dunque non fa o non dovrebbe far paura: resta però la certezza che fino a quel termine la vita del discepolo di Cristo resta nel campo di tensione dell'irrisolto, del provvisorio, del pellegrinaggio.