Omelia (07-05-2006) |
mons. Antonio Riboldi |
Io sono il Buon Pastore E' chiamata, questa domenica, la domenica "del buon Pastore", ossia l'amore del Padre che non ci lascia mai soli, ma, prendendo lo spunto, come era solito fare Gesù, dai segni del suo tempo, paragona il suo amore a quello che ha il pastore con le sue pecore. Ma ascoltiamo quello che Giovanni l'apostolo scrive nella sua prima lettera: "Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre, per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente. La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto Lui. Carissimi, noi siamo fin d'ora figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché Lo vedremo così come Egli è" (1 Lett. 3,1-2). Incredibile quello che "è" in queste semplici parole di Giovanni: "noi siamo figli di Dio". Una verità che sembra semplice, ma che forse non sempre contempliamo in tutta la sua grandezza e in quella manifestazione di amore che è impossibile anche contemplare ed è paradiso il solo sperimentare. Cosa può desiderare di più un uomo, del sentirsi amato da Chi è l'Amore? Un amore che veste ognuno di noi di una bellezza e di un valore che credo gli Angeli contemplino e ci invidino, per cui tutta la vita di ciascuno di noi è un racconto di questo amore...anche se a volte non ce ne accorgiamo. O peggio ancora, ci affidiamo al fragile amore del prossimo, oggi così avaro e che, tante volte, non tiene in conto la grande nobiltà di ciascuno di noi agli occhi del Padre. Un Padre che, come è nella Pasqua che sviamo vivendo, non si rassegna ai tanti nostri voltaspalle, come non ci interessasse, ma, con quella fedeltà che è la Sua natura, non esita a dare Suo Figlio, a sacrificarLo per poterci "gettare le braccia al collo", quando torniamo da Lui e, commosso, gridare: "Facciamo festa, mio figlio è tornato. Era morto ed ora è vivo". Contemplare tanto amore era ed è un immergersi nella felicità che diventa poi estasi. Un amore che, come è nella stessa natura sua, non ci perde mai di vista, ma è sempre rivolto su di noi, su ciascuno di noi, cercando tutte le vie per entrare nella nostra vita. Come è nella parabola del buon Pastore, che è il Vangelo di oggi. Non si rassegna mai il Padre a perderci. Diremmo noi "fa pazzie", come fece con il dono di Suo Figlio Gesù, nostra Pasqua. Quando ero ancora piccolo, mamma ogni giorno faceva due domande, che sono poi il "catechismo della vita". "Chi ti ha creato? chi è tuo Padre? "Dio" rispondevo. E così lei designava il suo ruolo, quello di dare vita ad un figlio che veniva da Dio, per poi servirlo con amore, fino in fondo, come fece Maria con Gesù. La seconda domanda era: "Ma perché Dio ti ha creato? Qual è la ragione o il senso di questo dono, che sei tu? Tutte le creature inanimate, come le piante, gli uccelli, tutto, ma proprio tutto, ha un senso, ma quale è il senso, o la strada, che Dio ha tracciato per te fin dalla eternità?" La risposta era ed è: "Per conoscerLo, amarLo, servirLo e poi essere sempre con Lui in Paradiso". E qui ha origine quella che noi chiamiamo "vocazione", ossia la strada che Dio ha tracciato per noi e che Lui fa con noi: una strada, qualunque essa sia, che è percorrere i senrtieri della santità, passo dopo passo, anche nelle cose semplici. Oggi la Chiesa ci offre la riflessione di una vocazione particolare, che è quella della vita religiosa o del sacerdozio, pastore delle anime, ossia Gesù stesso che si dona a poveri uomini, come sono i chiamati, per trasmettere la sua grazia, il suo amore nei sacramenti, nella Parola, nella missione continua della carità. Essere preti o vescovi non è mai una scelta personale, come può essere la scelta di una professione. E' addirittura la scelta di Dio. Dice l'evangelista Marco: "Scelse quelli che Egli volle perché stessero con Lui e poi mandarli". E le sue scelte non sono come le nostre, ossia guardando ai meriti, alle capacità, o altro. No. Lui sceglie i poveri, gli umili, ossia quelli che domani, divenendo Lui stesso, "alter Cristus", mettano totalmente a disposizione tutto di se stessi, ma, nello stesso tempo, questo tutto, altro non è che aprire a Dio la possibilità di amare ed operare la salvezza, oggi. Il prete, il vescovo, non sono bravi perché sanno parlare bene o fanno tante belle iniziative; sono semplicemente uomini che si donano completamente e cercano di aprire la strada a Dio. Con un amore che li prende totalmente, pur sapendo che non sono artefici del bene che fanno, ma sono, come direbbe Madre Teresa di Calcutta: "Dita offerte alla matita, con cui Dio scrive la sua opera". Gesù direbbe: "Servi inutili. E la gente li chiama "pastori", dal sacerdote, al vescovo. Pastori che, come il buon pastore, Gesù, amano talmente la propria gente a loro affidata, da essere chiamati "buoni": e questo è il titolo bello, che vorremmo sentirci dire sempre, noi pastori. Sono persone semplici, che dovrebbero avere la coscienza di offrire ogni giorno la propria vita, per fare sentire vivamente che loro sono "Gesù che opera", che è vicino, non ci ha lasciati soli salendo in cielo. Un sacerdote o vescovo, "servo inutile", ma pastore buono, quando è accolto dalla gente, sa che non ha più vita propria, ma il suo vivere in mezzo e tra la gente è farsi mangiare, come "pane spezzato", come continuazione di quel "pane spezzato", che è l'Eucarestia. Non può avere paura dei pericoli cui va incontro, tante volte per difendere il gregge. Non lo spaventano né le incomprensioni, né le ostilità: queste fanno parte del cammino con Gesù, sulle vie del Calvario. E se necessario danno la vita, come è nei tanti martiri del nostro tempo. Così li dipinge Gesù, oggi: "Io sono il buon pastore. Il buon Pastore offre la sua vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde: egli è un mercenario e non gli importa delle pecore" (Gv 10, 11-18). La serenità del "pastore", che è il nostro parroco o il nostro vescovo, viene dal sapere con certezza che vive per amare tutti ed offrire Gesù, e questo gli basta. Oggi, purtroppo, vengono a mancare i sacerdoti e tante piccole comunità si sentono come "orfane". Quella loro chiesa, costruita con tanto zelo dai padri e conserva la memoria della loro fede e santità, ma sopratutto era il sicuro luogo dove Gesù era vicino, stando nel tabernacolo: quella casa canonica "vuota", perché non c'è il prete, l'amico che dava la sicurezza che Gesù era vicino alle nostre vicende, mette tanta tristezza, come sentirsi orfani. Diceva un ateo al proprio parroco, che si lamentava di essere sempre solo nella chiesa, perché la gente passava ma non entrava, troppo indaffarata, al punto che voleva andarsene, non vedendo l'utilità della sua presenza: "Caro Parroco, non vada via. Per noi sapere che lei c'è, anche se non entriamo in chiesa, è sentire che c'è qualcuno che ci ama e veglia su di noi. Non ci lasci soli!" Viene tanta tenerezza e tristezza, oggi, nel vedere tanti sacerdoti e Vescovi che continuano a servire la Chiesa e stanno tra la gente, nonostante la loro tarda età. Parroci, vescovi, con tanta fatica addosso, ma sempre sorridenti, come se ogni giorno fosse il primo giorno. Sono i "padri" di tanti, che da loro sono stati battezzati, uniti in matrimonio: sono davvero amici di casa nostra: amici di cui fidarsi: amici che non hanno mai le mani vuote: queste, caso mai, sono "bucate" dall'età e dalle sofferenze, ma sempre piene di speranza per tutti, senza distinzione; sempre preoccupati della salvezza di tutti; sempre alla ricerca di chi forse non ama neppure essere cercato. Non so neppure io perché Dio mi ha scelto perché fossi suo sacerdote e poi vescovo. Ero povero di famiglia, ma pronto a fare la volontà di Dio. Così a soli 12 anni mi sono presentato al piccolo seminario dei Padri rosminiani. Ci vollero anni per modellare la mia vita su Cristo fino al sacerdozio. Nel 1951 venni ordinato prete a Novara. E da allora Dio, attraverso l'obbedienza, mi ha condotto dove non pensavo: prima in Sicilia a Santa Ninfa', dove la comunità si era totalmente dispersa per uno scandalo, con tanta diffidenza attorno, in attesa del come ci saremmo comportati (eravamo in tre confratelli). Abbiamo atteso i tempi di Dio, nella preghiera, nella attenzione, nella totale disponibilità, sapendo che con noi operava Gesù. E così fu, e la comunità dopo qualche anno divenne modello di comunità. Il terremoto del 1968 poteva disperdere l'opera compiuta: ma il terremoto non solo non intaccò il nostro zelo ma aumentò l'amore, fino a farsi voce di chi non aveva voce e la comunità si ricompose. Quando, dopo 20 anni, l'obbedienza credeva di avermi chiesto troppo e quindi era il tempo di cambiare, ancora una volta Dio si fece avanti. Con l'autorità di Paolo VI, che mi conosceva, mi chiese di essere vescovo di Acerra, altra situazione ecclesiale complessa: non certamente facile. Ma ancora una volta, con la fede che tutto era voluto dal Padre e Lui avrebbe operato con me e per me, con serenità e tutto l'amore possibile, sono stato pastore di questa chiesa. E ancora oggi, anche se "emerito", continuo a correre. Osservando il cammino compiuto in situazioni difficili, ogni giorno mi riempie di stupore nel vedere le meraviglie che Dio sa compiere quando ci trova disposti a farci "servi inutili" della sua azione. Davvero Dio è il solo buon Pastore, che si serve di noi, per trasmettere il suo amore. Per questo sento il dovere di dire grazie a Lui per quello che ha compiuto, e un grande grazie a tanti che si sono fatti amare. E' davvero un dono essere pastori. |