Omelia (30-08-2003)
padre Lino Pedron
Commento su Matteo, 25, 14-30

Il regno dei cieli è un capitale che Dio ha messo nelle nostre mani: non possiamo lasciarlo improduttivo. Questo racconto ci insegna la vera natura del rapporto che deve intercorrere tra Dio e l'uomo. E' tutto il contrario di quel timore servile che cerca rifugio e sicurezza contro Dio stesso in una esatta osservanza dei suoi comandamenti. E' invece un rapporto di amore dal quale possono e devono scaturire coraggio, generosità e libertà. Il servo buono e fedele è colui che, superando ogni timore servile e la gretta concezione farisaica del dovere religioso, traduce il vangelo in atti concreti, generosi e coraggiosi. Attendere il Signore significa assumere il rischio della propria responsabilità. A coloro che si muovono nell'amore e si assumono il rischio delle proprie decisioni, si aprono prospettive sempre nuove ( v. 28). Chi invece resta inerte e inoperoso ( v.25) diventa sterile e improduttivo, e gli sarà tolto anche quello che ha ( v.29). Non basta non fare il male, bisogna fare positivamente tutto il bene e a tutti.

La paralisi operativa del cristiano è provocata dalla paura nei confronti del suo Signore. Il cristiano vero conosce Dio come amore infinito, e questo lo porta ad agire con entusiasmo e dedizione. "Per questo l'amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo. Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone il castigo e chi teme non è perfetto nell'amore" (1Gv 4,17-18).

Il dono dei talenti che Dio ci ha dato è un atto di fiducia nelle nostre reali capacità e nella nostra buona volontà. Egli non vuole che siamo dei semplici dipendenti o esecutori ignari e deresponsabilizzati, ma dei collaboratori coscienti e coscienziosi nella gestione dei suoi beni. L'osservazione maleducata, ingiusta e malvagia che il servo fannullone butta in faccia al suo padrone:" So che sei un uomo duro e mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso" (v.24) contiene una preziosa informazione sul conto di Dio, perché riconosce la laboriosità e la capacità di questo Signore che sa trarre profitto anche dove gli altri non riescono (Dio sa trarre il bene anche dal male, perfino dal peccato!). E vuole che i suoi servi siano come lui.

Il servo fannullone non è solo pigro, ma anche stolto. Il suo giudizio sul padrone è falso e malevolo. La sua colpa non è solo la pigrizia, l'infingardaggine, la mancanza di capacità di rischio, ma la disistima e la mancanza d'amore verso il suo padrone: non l'ha compreso, non si è fidato della sue proposte.

Il racconto rappresenta la comunità cristiana impegnata nelle sue varie mansioni. La vocazione cristiana è un capitale a rischio: un dono che bisogna far fruttificare con industriosità, saggezza e amore. Ogni fedele deve dare, con responsabilità e coraggio, la propria prestazione.

Il premio, espresso nel raddoppiamento dei talenti e nella partecipazione alla gioia del Signore, contiene un richiamo alla comunione di vita con Cristo. La condanna è l'esclusione dal banchetto di questa intimità. Fuori dalla sala delle nozze eterne il servo sarà condannato all'oscurità, al freddo, al pianto.

Il momento attuale decide la nostra sorte eterna.

*** Matteo mette in guardia i suoi lettori contro il rischio del disimpegno che sarà condannato come mancanza di fede e di fiducia nel Signore. La paura è il contrario della fede, come la pigrizia è il contrario dell'impegno fruttuoso. L'intenzione di Matteo è questa: motivare un serio impegno dei cristiani nella vita presente con la prospettiva del giudizio finale, della ricompensa e del castigo.

L'esperienza di fede per Matteo è una relazione personale con il Signore, che si esprime e si concretizza nella fedeltà operosa come risposta alla sua iniziativa gratuita.

L'immagine di Dio è deformata dalla paura. Essa paralizza l'iniziativa dell'uomo, gli impedisce di essere attivo e di rischiare.

Il terzo servo, invece di presentare i suoi guadagni, fa leva sulla severità del suo padrone, di cui ha un pessimo concetto, per motivare la sua totale mancanza di intraprendenza nel far fruttare il capitale ricevuto. In altre parole: la colpa è del Signore, non sua ( vv.24-25). La risposta del Signore si apre con due appellativi," malvagio e pigro", che sono l'opposto di quelli usati per i primi due servi laboriosi e intraprendenti," servo buono e fedele". Il Signore risponde riprendendo le stesse parole del servo: "Sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso".

Il dialogo si conclude con l'ordine di cacciare il servo malvagio e pigro. Con tale conclusione il racconto diventa un avvertimento per tutti coloro che nell'attesa della venuta del Signore non si impegnano con costanza e fedeltà.

Il terzo servo non ha fatto, apparentemente, nulla di male, ma, in realtà, il non corrispondere alle attese del Signore è il massimo dei mali, se merita tanto castigo. La vita non ci è stata donata per non fare del male, ma per fare il bene, diversamente i cadaveri sarebbero migliori di noi: non uccidono, non commettono adulterio, non rubano, non fanno falsa testimonianza...

La frase: "A chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha" (v.29) può sembrare un principio ingiusto; in realtà mette in evidenza come nel seguire il Signore ci sia un crescendo di intimità, di senso reciproco di appartenenza, che si intensifica e si approfondisce sempre di più.

Questo racconto non è una spinta all'imprenditorialismo o all'accumulo di capitali: i talenti sono i "misteri del regno di Dio", non i denari.

Il seguire Gesù rimane spesso bloccato perché ci si lascia dominare dalla paura, che è esattamente il contrario della fede ardimentosa che sposta le montagne. Per concludere, esemplifichiamo: paura di sposarsi, accettando la definitività di questa unione indissolubile per volontà di Dio; paura di fare i preti a vita; paura di consacrarsi definitivamente a Dio nella vita religiosa; paura, paura e sempre paura... perché abbiamo paura di Dio.