Omelia (28-05-2006) |
mons. Antonio Riboldi |
Una festa che attendiamo La domanda che ci accompagna tutti, speriamo, è quella del "cosa avverrà dopo la nostra inevitabile morte?" C'è chi la risolve sbrigativamente dicendo che tutto finisce e non c'è più "domani". Ma viene spontaneo chiederci: "che senso allora ha tutta la fatica che facciamo per dare alla vita "un senso" che sia accettabile? Valeva la pena nascere, ci direbbe l'apostolo Paolo, se non ci fosse la resurrezione? Sentiamo profondamente tutti che ci sono valori che non possono avere un termine, ma hanno bisogno di infinito, come l'amore, come il sacrificio, come il bene stesso. E per chi crede, nella lotta per la vita, - perché davvero vivere è un continuo confrontarsi con i valori grandi, che vanno oltre questa esperienza di vita - sa che ci sarà un domani e giudica questa vita come una vigilia, in attesa che arrivi lo Sposo per accompagnarLo alla grande festa delle nozze...una attesa che Gesù definisce "con le lampade accese", come è per chi è saggio e prudente, per non essere colti sprovvisti "di olio" e quindi sentirsi dire alla fine: "Non vi conosco". E fa paura quella porta che si chiude per sempre. Gesù ha voluto rassicurare i suoi, e quindi noi, che come Lui è salito al Cielo, così anche noi siamo chiamati a salire con Lui...sempre se saremo vergini prudenti con le lampade della fede accese. E come a rendere visibile questa vocazione al Cielo, Gesù dopo la resurrezione, tornò spesso tra i suoi e alla fine "salì al cielo". Così narrano gli Atti degli Apostoli: "Gesù si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del Regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre: "quella che avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo fra non molti giorni". Gesù venutisi a trovare insieme, gli domandarono: "Signore, è questo il tempo in cui restituirai il regno di Israele?" Ma egli rispose: "Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, e la Samaria, fino agli estremi confini della terra". Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo, mentre Egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: "Uomini di Galilea, perché state a guardare il Cielo? Gesù che è stato tra di voi è stato assunto al cielo, ma tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo" (At 1,1-11). Possiamo per un momento metterci nei panni degli Apostoli. Avevano all'inizio seguito senza battere ciglio Gesù che li aveva scelti e con fedeltà, lasciando ogni interesse terreno. Oramai Gesù era lo scopo della loro vita. Ed è meraviglioso anche solo immaginarlo, perché tutti vorremmo essere, credo, a quel seguito. Nonostante i nostri dubbi, le nostre debolezze. E c'è chi, per vocazione, Lo segue come se la vita fosse sempre una attesa di seguirLo oltre la morte. Chiesero ad una Badessa di un Convento, perché quando una suora moriva suonassero le campane a festa e non a lutto come facciamo noi. La risposta potrebbe essere anche di chi non è suora, di chi è semplicemente uno o una che ha scelto di seguire Cristo nella ordinarietà della vita. "Una suora, - come potremmo dire ciascuno di noi - ha vissuto una vita come fidanzata a Cristo. La morte è il giorno finalmente della festa con lo Sposo in Cielo. E nella festa non si suonano le campane a morte, ma a festa". Mi ricorda tanto la morte di mia nonna, una donna con 13 figli di cui t re donati a Dio, una suora e due religiosi. Una donna "ricca di doni" da consegnare al Padre. Quando morì, e la si accompagnava al cimitero, mi venne spontaneo obbiettare: "Ma perché recitiamo l'eterno riposo e non il Gloria? Perché non suoniamo a festa le campane, per l'ingresso in cielo di una "santa" che visse tutta una vita per e con Gesù?" Ed è lo stesso che sentii quando accompagnai mamma, al camposanto. Non mi venivano sulle labbra preghiere di morti, ma di vivi arrivati alla grande festa del Paradiso. Quante volte si legge nella vita dei santi, che passavano gli ultimi giorni di questa vita, fissando il cielo e attendendo che si aprisse su di loro...come avvenne per S. Stefano! Vivere, per questi nostri grandi fratelli o sorelle, era "attesa del Cielo". Morivano con il sorriso sulle labbra, proprio di chi abbandonava le logore vesti della terra per i vestiti bianchi delle nozze eterne. Ricordate le ultime parole che, il grande amato Papa Giovanni Paolo II, negli ultimi giorni della sua meravigliosa vita qui tra di noi, rivolse a chi gli era attorno: "Lasciatemi andare verso il Cielo". Questo giorno vorrei anch'io sentirmi uno che ha una vita continuamente con "gli occhi rivolti al cielo", come erano quelli degli Apostoli. "Ma cosa intendiamo per 'cielo' - si interroga Paolo VI -. Intendiamo molte cose. Intendiamo comunemente la condizione in cui si trovano gli angeli e i santi, le anime dei buoni, separate dai corpi, gli spiriti giusti: intendiamo la vita che si prolunga oltre la morte, la sopravvivenza oltre il tempo, la vita immutabile dell'oltre tomba, la vita eterna. Intendiamo anche l'ordine nuovo che emana da Dio, il disegno che Egli ha voluto sovrapporre all'ordine materiale: il Regno dei cieli, quel complesso di rapporti, completamente originali, che il mondo umano è venuto a godere con Dio mediante la missione di Gesù. Il cielo è la visione di Dio, è la felicità eterna, è il termine a cui deve essere diretta la nostra vita presente. Quanto a noi, dice S. Paolo scrivendo ai cristiani di Filippi, la nostra patria è nei cieli. E allora il senso vero e completo del nostro vivere è un pellegrinaggio nel tempo, in questo mondo, per raggiungere la meta finale, dove il nostro essere avrà la sua espressione autentica, la sua completezza. Affrettiamoci, dice Sant'Ambrogio, verso questa vita. Dio, incalza S. Agostino, dopo questa vita, sia la nostra patria. La religione - continua Paolo VI - che parte da Cristo, proietta nel futuro i suoi raggi, e là fa convergere gli sguardi della umanità, disincantandoli dal presente e dal prossimo avvenire temporale, verso il mistero di una rivelazione completamente nuova ed eterna. Nella stanza chiusa della vita presente si apre una porta luminosa verso una vita futura. La nostra capacità di desiderare, di sperare, è ingrandita oltre misura" (omelia, 15.5.1958). E Paolo VI era un "Pastore" che viveva con lo sguardo sempre rivolto al cielo cui cercava di portare anche la Chiesa che a volte sembra non abbia abbastanza gli occhi rivolti al cielo. Ricordo, e con molta commozione, gli occhi di Paolo VI: quel suo sguardo pieno di speranza e di cielo. Ero andato da lui, recando le speranze del Belice che stentava a uscire dal tunnel del terremoto, e con me avevo portato 50 bambini, che hanno ancora gli occhi che .conoscono innocenza, speranza. Ci accolse in una delle stanze del Vaticano in udienza speciale. Sorrise di gioia, davvero da "bambino", nel vedere quei 50 piccoli, incuranti di ogni formalità necessaria alla solennità dell'incontro: bambini che con incredibile libertà e fiducia lo attorniarono appoggiandosi a lui come avrebbero fatto con papà. Quando gli chiesi se era giusto ciò che facevo, si alzò, mi gettò le braccia al collo e mi disse: "Grazie per quanto fate anche a nome della Chiesa" e mi fissò lungamente negli occhi. Impossibile dimenticare quello sguardo, che sembrava fosse rivolto al cielo, ma grondante lacrime per le tante miserie della terra, che lui portava come Cireneo sulle spalle e nel cuore. Quando i miei occhi indugiano sulle vicende degli uomini, davvero non riesco a capire la cattiveria che a volte contengono e genera sofferenze. E mi accorgo che il culto del benessere, che ci rende "cose materiali", ha il potere di renderci ciechi che non sanno più che sulle loro teste splende il cielo. Per cui ci si lamenta di tutto e di tutti, per la sola ragione che non si hanno occhi per il cielo. L'Ascensione, allora, diventa il momento della speranza per tutti noi. Il giorno in cui avremo il dono, come gli Apostoli, di rivolgere il nostro sguardo fisso al cielo, ci sarà facile scorgere quanta miseria c'è in questa terra, con tutti i suoi limiti e inganni. Viene allora voglia di pregare: "Signore fa' che io veda, Signore, mostrami il tuo volto". Ed è proprio il tempo, con la Grazia, ad "aprire gli occhi" per ritrovare la gioia e la speranza, che sono il prezioso pane dei pellegrini. Chi di noi, tante volte, non sente la nostalgia di cielo, come quella che viene spontanea quando a Lourdes, a sera, durante la recita del S. Rosario, alla fiaccolata, cantiamo: "Al ciel, al ciel, al ciel andrò a vederla un dì"? Lì davvero è la sincerità del cuore fatto per Dio. |