Omelia (11-09-2003)
padre Lino Pedron
Commento su Luca 6, 27-38

Queste parole di Gesù sono strettamente autobiografiche: lui per primo ha fatto quello che ora comanda a noi. Di conseguenza dobbiamo amare il prossimo come Dio lo ama e ama noi.

Il comandamento dell'amore riguarda innanzitutto i nemici. Infatti l'esperienza primordiale del credente è quella di essere stato amato da Dio quando era ancora suo nemico (Rm 5, 6-11).

Questo amore verso il nemico è l'agàpe, l'amore stesso con il quale Dio ci ama, ed è Dio stesso. L'amore per il nemico è la prova per vedere se realmente abbiamo conosciuto Dio. Chi non ama il nemico non conosce Dio.

L'amore per il nemico è il fondamento pratico del cristianesimo, che in altre parti del vangelo si esprime come perdono (cfr Lc 6,36-38; Mt 6,11-12.14-15; 18,21-35).

Gesù ama i peccatori perché odia il peccato. Noi odiamo i peccatori perché amiamo il peccato. Se non amiamo i nemici, siamo nemici di Dio stesso, che li ama perché sono suoi figli. Separarsi dai nemici è separarsi da Dio, che nella sua misericordia si è unito a loro.

L'inimicizia dell'altro proviene quasi sempre dal mio egoismo che lo vuole asservire. L'altro non è visto come fratello, ma come strumento del mio egoismo.

Amare i nemici e amare il prossimo è la stessa cosa: "I nemici dell'uomo sono quelli di casa sua" (Mi 7,6; Mt 10,36). Il nemico lontano è meno detestabile del prossimo vicino.

L'amore non è solo un atteggiamento interiore di misericordia. Come ogni amore, si esprime più nei fatti che nelle parole. Come la fede senza le opere è morta, così l'amore del nemico non esiste se non gli facciamo del bene con creatività e fantasia. Dev'essere però un bene per lui, non per me. Dev'essere un'esaltazione del nemico nell'amore, non l'umiliazione del fratello nel disprezzo e nell'odio. Il perdono è umiltà e amore, non atteggiamento di superiorità e vendetta. Il bene fatto al nemico con atteggiamento moralistico e compassione superba lo porta al rifiuto del perdono e all'indurimento nel male e manifesta la nostra cattiveria e stupidità.

Il nostro sommo bene ci viene proprio dall'amore dei nemici, perché ci dà la possibilità di amare come ama Dio, nella totale gratuità.

"Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (v.31). E' la regola d'oro che sintetizza tutto quanto è stato detto finora. Rabbì Hillel l'aveva insegnata in forma negativa: "Ciò che dispiace a te, non farlo a nessuno. Questa è tutta la legge: il resto è commento". Ma per osservare questo comandamento negativo basta non fare nulla. Gesù invece comanda di fare tutto il bene con la creatività propria dell'amore: impegno da infarto quotidiano! Ovviamente, per vivere queste parole di grazia occorre il dono dello Spirito che ci dà il cuore nuovo.

Per amare come Dio bisogna amare a senso unico: dare tutto senza pretendere nulla. Il fondamento di ogni morale è "essere come Dio". Dio ci ama senza condizioni e senza riserve e ci rende capaci di amare gli altri così come sono, senza condizioni e senza riserve. E i primi aventi diritto al nostro amore sono i più bisognosi, i più disgraziati, i nemici.

L'amore di misericordia è il solo amore capace di creare un mondo nuovo, salvandolo dalla distruzione in cui l'egoismo l'ha precipitato. L'amore di scambio è tipico dei peccatori. Il prezzo della vita è la gratuità.

Quanto Dio ha fatto nella creazione e nella redenzione è amore e gratuità: non ha investito, non ha speculato su di noi. Ha dato tutto se stesso, rimettendoci la vita. E ci ha lasciato un comandamento: "Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Mt 10,8).

L'amore senza condizioni, senza riserve e senza alcuna speranza di contraccambio ci otterrà un premio grande: amando in questo modo diventiamo figli del Padre. Il premio della vita cristiana, la salvezza eterna, il paradiso non è una cosa, ma diventare ciò che amiamo: Dio. Nell'amore dei nemici giunge a maturazione e fruttifica lo Spirito di Dio ricevuto nel battesimo che ci ha resi veramente "figli dell'Altissimo".

"Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro". Questo versetto è il culmine della rivelazione di chi è Dio per noi e di che cosa ci ha donato. Questo amore di misericordia è l'unico possibile nella situazione in cui ci troviamo di fatto. Il male, che sembra sfuggire di mano alla potenza di Dio, è raggiunto e cambiato in bene dalla misericordia. Ciò che Dio non compie con la potenza della sua mano libera di agire, lo compie con l'impotenza della sua mano inchiodata per amore alla croce.

I vv. 37 e 38, prima ancora che linee di comportamento per noi, sono i lineamenti del volto del Padre misericordioso. La prima immagine che l'uomo ha di Dio è quella del giudice. L'immagine di Dio che giudica con severità è l'ultimo idolo che Gesù riesce a togliere, facendoci vedere che il nostro male lo porta lui sulla croce: "Ecco l'Agnello di Dio che porta via il peccato del mondo" (Gv 1,29). La croce di Cristo è l'unico "giudizio" possibile al Padre della misericordia che giustifica tutti.

Dunque, chiunque giudica un altro sbaglia sempre. E l'errore non sta nel fatto che l'uomo può sbagliare nel suo giudizio, ma nel fatto che usurpa il potere di Dio. Chi giudica non conosce Dio che è misericordia (cfr Giona cap.4). Egli invece di giudicare, giustifica e, invece di condannare, condona.

Il giudizio finale di salvezza o di perdizione non è operato da Dio, ma da me. E non in un tempo indeterminato o nascosto, ma ora, nel rapporto quotidiano con il fratello. Questa è la misericordia di Dio: lascia a noi il giudizio su noi stessi; e questo giudizio è lo stesso che pronunciamo sugli altri. Se non giudichiamo gli altri, Dio non giudica noi. Se non condanniamo gli altri, Dio non condanna noi. Se perdoniamo agli altri, Dio perdona a noi.

Nella misura in cui si dà al fratello, si riceve da Dio. L'unico metro di misura del dono che riceviamo è quindi la nostra capacità di donare. Dio rinuncia a misurare come rinuncia a giudicare. Siamo misurati e giudicati da noi stessi, secondo il nostro amore verso gli altri.

In questo ultimo versetto c'è l'esaltazione dell'abbondanza del dono di Dio. Egli non conosce misura nel donarsi. L'unica limitazione alla misericordia di Dio è data dal nostro grembo, dalle nostre viscere di misericordia.

Dio è il punto di riferimento dell'agire cristiano. Tutta la preoccupazione del credente è ripetere nella propria vita i suoi comportamenti.

Gesù tenta di levarci dalla testa un Dio che siede come giudice in un tribunale, per sostituirlo con un Padre che siede in casa con i suoi figli ai quali non cessa di voler bene e di usare con essi tutta la sua comprensione paterna. Lo sforzo del giudice è quello di arrivare a una sentenza di condanna, quello del padre, così come quello del cristiano, a una assoluzione totale. Il cristiano è chiamato a ricopiare l'atteggiamento paterno di Dio verso tutti indistintamente.

L'amore dei nemici è una grazia che ci fa misericordiosi come il Padre.

Gesù ci insegna come dobbiamo comportarci nei confronti di quelli che non ci amano: non giudicate, non condannate, perdonate, date. E questi quattro comandamenti vanno praticati con una generosità sovrabbondante, smisurata, perché con la misura con la quale misuriamo, sarà misurato a noi in cambio da Dio.

Il desiderio dell'uomo è "diventare come Dio" (Gen 3, 5). Ora, dopo la rivelazione del vero volto di Dio in Gesù, è possibile capire la via per diventare Dio. L'essenza di Dio è la misericordia: "Poiché, quale è la sua grandezza, tale è la sua misericordia" (Sir 2,18).

La nostra esperienza fondamentale di Dio, dal momento che siamo nel peccato e nel male, è quella della misericordia che perdona e che salva. Questo amore di misericordia è l'unico possibile nella situazione in cui ci troviamo di fatto.

Se l'amore si esprime nel dono, la misericordia si esprime nel perdono, che significa super-dono, in modo che "dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" (Rm 5, 20).

L'aggettivo che Luca usa qui per dire "misericordioso" è oiktìrmon, che indica l'espressione esterna della misericordia, sia come compassione che come intervento. Questo aggettivo, applicato a Dio, è usato solo due volte in tutto il Nuovo Testamento: qui e nella Lettera di Giacomo 5,11. Nella traduzione detta dei Settanta oiktìrmon traduce l'ebraico rahamin, che indica l'utero. Questo significa che Dio misericordioso ci è presentato come padre, ma ancor più come madre. A questo proposito è prezioso quanto ha scritto san Clemente di Alessandria: "Per la sua misteriosa divinità Dio è Padre. Ma la tenerezza (sympathés) che ha per noi lo fa diventare madre. Amando, il Padre diventa femminile" (Quis dives salvetur, 37,2).