Omelia (22-06-2006)
mons. Vincenzo Paglia


Il "Padre nostro" occupa il centro del discorso della montagna, quasi a darci "la sintesi di tutto il Vangelo" (Tertulliano). La prima parola è "abbà" (papà). Gesù compie una vera e propria rivoluzione religiosa rispetto alla tradizione ebraica di non nominare neppure il nome santo di Dio, e con questa preghiera ci coinvolge nella sua stessa intimità con il Padre. Non è che "abbassa" Dio; piuttosto siamo noi innalzati a Dio "che sta nei cieli". Egli resta il "totalmente altro" che tuttavia ci abbraccia. È giusto fare la Sua volontà e chiedere che venga presto il regno, ossia il tempo definitivo nel quale sarà finalmente riconosciuta la santità di Dio. La seconda parte della preghiera riguarda la vita quotidiana. Gesù esorta a chiedere il pane, quello di ogni giorno, per farci toccare con mano la concretezza dell'amore di Dio. E poi pone sulle nostre labbra una grave richiesta: "Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Appare duro e irrealistico ammettere che il perdono umano sia modello ("così come noi...") di quello divino, ma nei versetti seguenti questa petizione trova una spiegazione: "Se avrete rimesso agli uomini le loro mancanze, rimetterà anche a voi il Padre che è nei cieli. Qualora non rimetterete agli uomini, neppure il Padre vostro che è nei cieli rimetterà le vostre mancanze". Questo linguaggio è incomprensibile per una società, come la nostra, nella quale il perdono è davvero raro. Ma forse proprio per questo abbiamo ancor più bisogno di imparare a pregare con il "Padre nostro".