Omelia (11-06-2006) |
don Fulvio Bertellini |
Tra dubbio e adorazione Esperienze contrastanti Nella scena di chiusura del suo vangelo, Matteo ci presenta l'esperienza ambivalente dei discepoli: la gioia della presenza del Risorto, che sfocia nell'adorazione, il dubbio che permane, e genera tensione. Il monte fissato da Gesù sembra essere un'allusione al monte delle Beatitudini: là si era aperto il ministero pubblico di Gesù, qui (lo stesso monte?) si chiude. O meglio: si compie. Gesù dice "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra". Il suo incarico è divenuto universale, non più limitato ai confini di Israele. Prima ancora di chiarire tutti i dubbi, la posta viene rilanciata, e una nuova scommessa è sul piatto. Non siamo in condizioni peggiori rispetto ai discepoli, né migliori. Anche noi oggi sentiamo la gioia di vedere alcuni segni della presenza del Risorto nel mondo e nella sua chiesa, particolarmente nelle opere dei santi di ieri e di oggi; e anche noi oggi sentiamo il dubbio: che quella presenza sia illusoria, quella santità artificiale, e la missione una velleità puramente umana. Vicinanza pericolosa Gesù si avvicina e parla ai discepoli. Lui stesso lo decide, senza essere sollecitato. Togliersi dalla palude del dubbio non è il risultato di un nostro sforzo (alimenterebbe dubbi ancora maggiori), ma è dono della sua benevolenza. Non siamo noi che ci sforziamo di salire a Dio, ma Dio stesso ci viene incontro in Gesù. Molte persone sperimentano il dubbio della fede, ma spesso si tratta di un dubbio generico, riguardante Dio, a cui si contrappone una fede generica, riguardante il Dio universale, il Dio di tutto, quello dei cristiani, degli ebrei, dei musulmani. Una fede generica non è molto migliore del dubbio: il senso vago e indistinto di un'entità superiore, comune a tutte le religioni, non è in grado di orientare la nostra esistenza, di dare una risposta alle nostre domande più radicali, di trasformare le nostre azioni. Finché Dio resta un essere lontano, che invita a compiere un bene generico, possiamo tranquillamente restare sul piedistallo del nostro "io", che diventa, senza che ce ne accorgiamo, il nostro idolo. Ora, Gesù si avvicina a noi, mostrandoci il volto di Dio. Il Dio universale, il Dio di tutti, degli ebrei, dei musulmani, degli induisti, degli animisti, ha preso il volto di Gesù per farsi vicino a noi. Ma è una vicinanza scandalosa, che rischia di sconvolgerci. Il potere del Figlio Il Risorto ci mostra un volto di Dio troppo vicino e scomodo: vicino ai poveri e ai piccoli della terra, fragile e disarmato, disposto a perdonare anche i peggiori peccatori, disposto a sopportare le nostre mediocrità (e però facendo ciò le porta a galla...). Non resta confinato nel suo spazio, nel cielo inaccessibile, ma si espone qui sulla terra: anzi, lega i due mondi, "mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra". Ciò che si compie qui, nella storia dell'uomo, ha una rilevanza nel cielo. Non un generico "fare il bene", ma la possibilità concreta, qui e ora, di essere uomini nuovi, che ricevono da Dio il dono di bene operare. Dicendo: "mi è stato dato ogni potere", Gesù si proclama Figlio di Dio e pari a Dio, depositario del suo Regno. Ma è uno strano esercito quello di cui Gesù si serve per imporre il suo potere: sono i Dodici, gli adoratori dubbiosi di poc'anzi, chiamati a "fare discepole" tutte le nazioni. Uno strano potere, e uno strano modo di essere Dio. La missione I discepoli sono chiamati ad essere i testimoni del Dio vicino, dal potere non oppressivo, dal volto misericordioso, che riunisce il cielo e la terra. E danno la loro testimonianza così come sono, senza essere dei superman, con la forza disarmata dell'annuncio, fidandosi della sua presenza: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo". Flash sulla I lettura "Interroga pure i tempi antichi che furono prima di te": il libro del Deuteronomio si richiama all'esperienza del passato. Il popolo è invitato a riconoscere la presenza di Dio non soltanto nell'avvenimento della creazione ("dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra"), e non soltanto nella grandezza cosmica ("da un'estremità dei cieli all'altra"), ma nella propria storia singolare. Lo stesso passaggio è richiesto a noi oggi: da una conoscenza di Dio "naturalistica" e "generica", alla conoscenza personale, a partire dagli eventi della nostra stessa vita. "... come fece il Signore per voi in Egitto, sotto i vostri stessi occhi?": le parole del Deuteronomio coinvolgono anche il lettore nella stessa vicenda dell'Esodo. Uno dei termini-chiave è "oggi": "sappi oggi e conserva bene nel tuo cuore..."; perché il lettore è chiamato a sentirsi coinvolto nell'"oggi" della liberazione e della presenza di Dio. Mentre dunque riscopriamo la presenza di Dio nella nostra vita, siamo invitati a confrontarla, a misurarla con il metro della storia della salvezza. Schiavitù, liberazione, esodo e terra promessa, morte, risurrezione, liberazione dal peccato e cammino verso la vita eterna possono diventare i modelli privilegiati per interpretare la nostra vita, e scoprire in essa la presenza buona e affidabile di Dio. Flash sulla II lettura "Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito, costoro sono Figli di Dio": abbiamo appena celebrato la festa di Pentecoste, che ci ha stimolato a riscoprire il ruolo dello Spirito nella vita della chiesa e nella nostra vita personale. La comunità vive di una presenza che va oltre la sua consistenza e le sue forze umane. Siamo chiesa perché siamo figli di Dio, e manifestiamo l'essere figli nella misura in cui accogliamo il dono dello Spirito. "... avete ricevuto uno spirito da figli": è lo Spirito che fa gridare, anzi, che grida in noi: "Abbà, padre!". Si tratta della preghiera tipica di Gesù, del suo tratto più caratteristico e originale. E' già interessante notare che la preghiera di Gesù può diventare preghiera di ogni suo discepolo. Ma è ulteriormente sorprendente che si tratti di un grido, non di una preghiera tranquilla, che sprofonda il credente nell'impassibilità e nella calma olimpica. Essere figli di Dio non ha nulla a che vedere con l'apatia, la rassegnazione, la tranquillità ottimistica e beota di chi vede tutto bello e positivo. Essere figli significa partecipare alla carità divina che si manifesta in Gesù: come compassione per i poveri, per i deboli e i sofferenti, come ricerca appassionata del peccatore perduto, come paziente sopportazione del discepolo che comincia a seguire la via del Vangelo, ma è continuamente tentato di ricadere nel laccio dell'orgoglio, del privilegio, dell'autoaffermazione. Avere in noi lo Spirito, essere parte della preghiera stessa di Gesù, significa misurare in presa diretta, sempre più da vicino, la nostra radicale insufficienza. Non siamo semplicemente persone mediocri che "sbagliano": ma persone che hanno ricevuto il grande dono di essere "figli", e che continuamente lo rifiutano, lo rimandano al mittente, lo depongono nel cassetto. Non siamo solo imperfetti di fronte ai nostri standard, ma anche peccatori di fronte a Dio. "se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche della sua gloria": la presenza dello Spirito in noi introduce una vera e propria sofferenza, che non è solo la sofferenza del male fisico, della persecuzione, della difficoltà di vivere e di amare. E' la sofferenza della tensione al compimento, del non essere arrivati, del sentirsi poveri di fronte alla ricchezza infinita dell'amore di Dio. Ma "beati gli afflitti, perché saranno consolati": la tensione al Regno, il dolore di non essere ancora arrivati è forse proprio il martello che apre il bunker delle nostre chiusure, e ci mette autenticamente in cammino verso Dio. |