Omelia (18-06-2006)
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Quel poco che c'era i quattro figli se lo sarebbero diviso in tranquillità, pensavano; ma ciò che li faceva trepidare era l'apertura del testamento, una busta gialla sigillata che portava con una grafia incerta un eloquente «ai miei figli». Chissà cosa aveva scritto quel vecchio padre, così originale in vita, così capace di sorprenderli ad ogni svolta della loro crescita. Aprirono, finalmente. Scoprirono che non c'era assolutamente nulla di originale; «Dividete quel poco che vi ho lasciato. E soprattutto vogliatevi bene». Sembrò loro troppo poco. Eppure. Le domande su "quel poco" iniziarono a lacerarli, ciascuno tirò fuori le differenze e la supposta conoscenza di ciò che avrebbe voluto papà. Si guardarono strani, ciascuno credendo di avere il monopolio su ciò che "voleva papà". Allora le parole del testamento divennero carne e sangue: «Vogliatevi bene»; non era una frase fatta, ma l'unica strada da seguire. E allora scoprirono che per volersi bene ciascuno doveva "rinunciare" alla propria visuale (la propria vita) a favore dell'altro. Non c'è altro modo per volersi bene che dare la vita. E scoprirono anche che "eseguire il Testamento" significava onorare papà, credere fermamente che la sua vita (e la sua morte) non era stata inutile. In questo stava l'assoluta originalità del vecchissimo padre. Anche a noi è dato un testamento. Un uomo, nel fiore degli anni, sta per morire: anzi, gli viene strappata la vita da quelli che dicono di amare Dio ed invece lo riducono ai loro calcoli; quest'uomo, in tutto simile a noi, nostro vero Fratello, sta per essere consegnato all'avido buco nero della morte. Eppure, in questo momento estremo, egli "prende in mano" la sua vita, con una lucidità sorprendente, Proprio come – ci suggerisce il passo di Marco – ha esattamente previsto il come e il dove avrebbe celebrato la cena pasquale: al piano superiore, in una grande sala. È il giorno in cui venivano macellati gli agnelli nel tempio ed al tramonto ogni famiglia (anche quelle che erano pellegrine a Gerusalemme) celebrava la Pasqua, cioè ricordava, consumando l'agnello e il pane e il vino, il passaggio dalla schiavitù dell'Egitto alla libertà di popolo di Dio. È lì che Gesù fa testamento, prevedendo che la sua morte violenta sarebbe stata assunta dal Padre come salvezza "per i molti" (le moltitudini). Ma il suo testamento non è un pezzo di carta, per quanto rivelatore e prezioso, il suo testamento è il suo Corpo. In nessun altro modo vuole essere ricordato, reso visibile, portato, inverato e realizzato, se non in questo: «Questo è il mio Corpo» e – ciò che lo esplicita «Questo è il mio sangue versato». Il testamento si è fatto corpo spezzato (ucciso) e sangue versato (agnello), qui Egli si consegna. Il Corpus Domini, il Corpo del Signore. Parole che il nostro uso, la nostra distrazione, le nostre accanite difese hanno rese sbiadite, perfino innocue. Parole da ritrovare. Ma che significa quel "prendete" tra le vostre mani questo mio Corpo che è il Corpo del Signore? Questo pane significa (non nel senso povero di simboleggia) sua, se così possiamo dire, presentifica il mio Corpo in mezzo a voi. Il testamento non lo si mette in cornice, né lo si impara a memoria a mo' di pappagalli, il testamento lo si attualizza, cioè lo si invera. Colui che lascia il testamento è "consegnato ai suoi" perché essi lo incarnino e rendano onore alla sua vita e alla sua morte. CorpoTestamento totalmente affidato ai suoi perché ne mangino, se ne nutrano e imparino a poco a poco (nonostante i tradimenti!) a donare la vita, a farne il DNA del loro essere "suoi". Corpo del Signore: corpo, cioè identità realeconcretavisibile; del Signore, cioè dell'autore della vita. Realtà inequivocabile per noi fratelli, se lo vogliamo.

Commento a cura di Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini