Omelia (27-09-2003) |
padre Lino Pedron |
Commento su Luca 9, 43b-45 Gesù annuncia chiaramente, per la seconda volta, la sua morte, ma i discepoli non capiscono e non vogliono capire ciò che egli dice. Hanno appena assistito al miracolo della guarigione dell'epilettico-indemoniato e preferiscono rimanere in questa atmosfera trionfalistica di successo che entrare in previsioni disastrose per il Maestro e, di conseguenza, disastrose e funeree anche per loro. La sua azione vittoriosa sul demonio ha suscitato ammirazione, la sua passione suscita incomprensione. Il comportamento degli apostoli, che preferiscono non sapere e non vedere, piuttosto che rendersi conto e affrontare le situazioni scomode, è una tattica troppo frequente anche nella nostra vita e all'interno della Chiesa. Si preferiscono le cose sbalorditive e le situazioni trionfalistiche invece dell'annuncio dell'umiliazione di Cristo fatto obbediente fino alla morte di croce(cfr Fil 2,8). Bisognerebbe invece fare nostre le parole di Paolo apostolo: "Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo"(Gal 6,14). Cristo morto per amor nostro sulla croce è la notizia più sbalorditiva e più beatificante: ci rivela che Dio ha voluto più bene a noi che a se stesso. Davanti alla passione di Cristo bisogna uscire dall'ambiguità. O si diventa realmente discepoli credenti, accettando la vera grandezza di Dio che è la sua umiltà e piccolezza che si manifesta nel consegnarsi a noi totalmente indifeso, o ci chiudiamo alla fede rifiutandoci di comprendere il mistero della sofferenza e della morte di Dio. Gesù ci dice: "Mettetevi bene in mente queste parole". Vuole che ci piantiamo nelle orecchie "queste parole". Queste parole non riguardano la sua azione, ma la sua passione, la sua passione d'amore. Dio è l'Amore infinito che si fa infinitamente piccolo per consegnarsi nelle nostre mani, per rivelarci la sua passione d'amore per noi. Se non si capisce l'impotenza di Dio che si consegna nelle mani degli uomini, non si può capire di che genere sia la potenza di Dio e, meno ancora, il suo "silenzio" e la sua "assenza" nella storia dell'umanità. L'amore non è dare cose, ma se stessi. E il dono totale di se stessi, il "consegnarsi" totalmente all'altro, mette in stato di assoluta povertà e impotenza. Ecco perché sono necessari la povertà e l'umiltà, l'impotenza e il "consegnarsi" di Dio nelle nostre mani: perché "Dio è amore" (1Gv 4, 8.16). Il verbo "consegnare" indica l'azione del Padre che ci consegna il Figlio, l'azione del Figlio che si consegna a noi, l'azione di Giuda che lo consegna al sommo sacerdote e al sinedrio, l'azione del sommo sacerdote e del sinedrio che lo consegnano a Pilato, l'azione di Pilato che lo consegna perché sia crocifisso, e, per finire in bellezza, l'azione di Gesù che consegna la sua vita nelle mani del Padre. Un unico verbo costituisce il più grande male dell'uomo che tradisce il Figlio di Dio, e il sommo bene di Dio che, in questa consegna di se stesso, manifesta la sua passione segreta, il suo amore infinito per l'uomo. La rivelazione di Gesù in croce ci salva, perché ci porta a conoscere e a credere all'amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16). |