Omelia (28-09-2003) |
padre Lino Pedron |
Commento su Marco 9,38-48 Riportando l'episodio dell'esorcista estraneo al gruppo dei discepoli, il vangelo ci dà un insegnamento importante. In tutti i tempi, molti cristiani hanno creduto di avere il monopolio di Gesù e, di conseguenza, hanno corso il rischio di essere intolleranti. Il primo dovere di coloro che hanno autorità è quello di non proibire di fare il bene. Il bene, sotto ogni forma, non è monopolio di chi ha il potere o dei cristiani rispetto agli altri. Fare il bene, scacciare i demoni è un diritto e un dovere che compete ad ogni uomo. Gesù e lo Spirito santo sono presenti ovunque si fa il bene e quindi anche fuori della comunità visibile della Chiesa. Dietro la rimostranza di Giovanni si vede con chiarezza l'egoismo di gruppo, la paura della concorrenza, che spesso si maschera di fede, ma in realtà è una delle sue più radicali smentite. Molti, troppi puntigliosi sostenitori di Dio (?) in realtà sostengono se stessi o gli interessi del loro gruppo. Nel brano precedente del vangelo (Mc 9,33-37) i discepoli si dividevano tra loro in nome del proprio io. Qui si dividono dagli altri nel nome del proprio noi. Il proprio nome, individuale o collettivo, è principio di divisione; solo il "Nome" di Gesù è fattore di unità tra tutti. L'egoista è vittima dell'invidia, che è figlia dell'egoismo e madre dell'orgoglio. Essa trasforma la vita in un inferno perché produce una sofferenza proporzionale al bene invidiato, fino a una sofferenza infinita davanti al Bene infinito, Dio. Per questo la Bibbia ci insegna: "La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo" (Sap 2,24). L'amore è dono, l'invidia, al contrario, è il voler possedere tutto e tutti, e quindi distruggere la vita di tutto e di tutti. Egoismo, invidia, orgoglio possono essere sia in forma personale che in forma collettiva. Il peccato originale del singolo è mettere il proprio io al posto di Dio, il peccato originale del gruppo è mettere al posto di Dio il proprio noi. La Chiesa non è composta da chi segue noi, ma da chi segue Cristo, con noi o senza di noi. La motivazione portata da Gesù: "Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me"(v.39) non è opportunistica, ma vuol far capire ai discepoli quanto sia irragionevole il loro atteggiamento. Egli dà come direttiva alla comunità la tolleranza e la magnanimità, e vuole che i suoi discepoli abbiano uno spirito aperto, che si elevi al di sopra della gretta mentalità di gruppo. Il vero cristiano, che è figlio di Dio, non vede negli altri dei nemici da combattere, ma dei fratelli da accogliere e da amare. Gesù Cristo è presente ovunque si fa qualcosa di buono, dentro o fuori della Chiesa visibile. Anche un bicchiere d'acqua dato a un povero cristiano, non resterà senza ricompensa. Questa presenza di Cristo, anche fuori della Chiesa ufficiale è per la comunità cristiana un costante richiamo: un richiamo al servizio e alla disponibilità verso tutti. Cristo ci chiama tutti a uscire con coraggio dalle nostre situazioni di comodo per incontrarlo in ogni uomo, cattivo o buono. Al tempo di Gesù, c'erano i maestri della legge che con il peso della loro autorità e con la minaccia delle loro scomuniche (cfr Gv 9,22; 12,42) cercavano di impedire alle persone semplici di seguire Gesù. Lo scandalo, di cui parla il vangelo, è tutto ciò che impedisce a qualcuno di seguire Dio per giungere alla salvezza. Per un uomo che svia gli altri dalla fede in Cristo sarebbe meglio, secondo la parola di Gesù, che fosse gettato in mare con una grossa pietra attaccata al collo. Piuttosto che far perdere la fede anche a uno solo, sarebbe meglio morire. Questa espressione ci richiama le parole pronunciate da Gesù nei confronti di Giuda: "Meglio sarebbe per lui, se non fosse nato"(Mc 14,21). Frasi di questo genere non vanno prese come sentenze di condanna diretta e immediata, ma piuttosto come delle espressioni che servono a far capire meglio la mostruosità dell'azione. Nell'applicare queste parole di Gesù, la comunità cristiana non intese limitarle solo ai bambini, ma a tutti i fedeli della comunità che venivano tentati a rinunciare alla fede. E' sempre una cosa estremamente grave mettere in pericolo o distruggere la fede nel cuore dei semplici. La serie di sentenze riguardanti le membra del corpo divenute occasione di caduta morale, mostra quanto sia radicale l'esigenza di Gesù dal punto di vista etico. Per lui l'argomento della salvezza è così grave, che bisogna compiere ogni sforzo per entrare nel regno di Dio (cfr Lc 13,24). Quando è in gioco la nostra salvezza eterna, non ci si può accontentare delle mezze misure. "Il fuoco inestinguibile" e "il verme che non muore" (v.48) sono due modi di dire che si ricollegano all'Antico Testamento (Is 66,24). Nel testo di Isaia si parla degli uomini giudicati da Dio, i cui cadaveri ammassati nella valle dell'Hinnon, situata a sud-ovest di Gerusalemme, sono abbandonati privi di sepoltura alla corruzione (verme) e al fuoco distruttore. Dal nome della valle di Hinnon ( in ebraico ge-Hinnon) deriva la parola Geenna. Era la discarica di Gerusalemme. Il "non entrare nella vita", il "non entrare nel regno di Dio" significa il fallimento del fine ultimo della vita, il non entrare nella vita eterna di Dio: è il fallimento totale dell'esistenza, è il diventare "rifiuti" da gettare nella discarica per essere bruciati, perché inutili, ingombranti e maleodoranti. C'è qui un invito pressante a scoprire l'assoluta importanza di seguire Gesù per non perdere irrimediabilmente il dono della vita presente e futura. |