Omelia (02-07-2006) |
mons. Antonio Riboldi |
Chi mi ha toccato? In un incontro di cristiani che hanno deciso di dedicare la propria vita al servizio dei poveri nel mondo - ed è il mondo che occupa più spazio di quanto ne occupa invece chi dice di "vivere bene", ossia ha, se non tutto, almeno il sufficiente - ad un certo punto un uomo, confrontandosi con la povertà, si chiese pubblicamente. "Non sono ricco, ma non mi manca nulla...Anzi confrontandomi con chi, davvero più che vivere, sopravvive, sento di dovere a loro tante, ma tante cose superflue, fino a condividere in qualche modo la loro totale miseria. Che devo fare? Come togliermi questo che mi pesa e che sento non mi appartiene? Ogni volta mi reco in Africa, per condividere la miseria, dove cerchiamo di alleggerire con altri il deserto della ingiustizia, mi sento davvero felice, finalmente, di essere come uno di loro e non mi pesa il nulla che là posso avere. Mi sento felice in quel diventare povero per rendere meno povero chi è misero sempre. Mi pare che solo allora leggo, negli occhi di chi amo, il sorriso di Gesù che si sente amato. Che fare?" Viene da rispondere con le parole che Paolo scriveva ai fratelli di Corinto. "Fratelli, come vi segnalate in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella scienza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così distinguetevi anche in questa opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza e vi sia uguaglianza, come sta scritto: "Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno" (II Cor 8,7-15). Ed è proprio nella nostra vocazione cristiana, avere questa sensibilità per essere trovati giusti agli occhi del Signore. Una giustizia che, nella natura della carità, non è solo nel non rubare, ma nel farsi dono, se si ha, con chi non conosce doni e vive in povertà. Così descrive questa vocazione alla carità il S. Padre nella sua enciclica "Dio è carità". "La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo. In questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario. Al contempo però la caritas-agape travalica le frontiere della Chiesa: la parabola del buon Samaritano rimane come criterio di misura, impone l'universalità dell'amare che si volge verso il bisognoso incontrato "per caso", (Lc 10-31) chiunque egli sia. Ferma restando questa universalità del comandamento dell'amore, vi è però anche una esigenza specificatamente ecclesiale - quella appunto che nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun membro soffra perché nel bisogno. In questo senso vale la parola della Lettera ai Galati: "Poiché dunque ne abbiamo l'occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede" (6,10). Osservando superficialmente come troppi tra di noi si comportano, vestono, si divertono, dando l'impressione del benessere che è sempre vanità delle vanità, farse non ci accorgiamo o sfugge all'occhio di chi sta bene, il grande numero di chi accanto a noi, sotto casa nostra, sta male. Ogni paese, o città, ha le sue "baraccopoli" che sono l'immagine della emarginazione. Fratelli nella fede, che non trovano lavoro o pane e vivono davvero ai confini della sopravvivenza. Assomigliano tanto all'uomo derubato e bastonato sulla via che da Gerusalemme conduce a Gerico, raccontato nella parabola del buon Samaritano. Sono dei semivivi che, se non incontrano il buon samaritano, della vita conoscono solo le ristrettezze e fanno la parte del povero Lazzaro, che raccattava le briciole che cadevano dalla ricca tavola di Epulone, quando non scelgono le vie della violenza, del furto o di altro, che sono la continua guerra che sentiamo raccontare dai mass media. Pare proprio che aggi la ricchezza subisca una continua violenza, che toglie certezze e serenità. Ma queste appartengano a chi sa farsi povero, come Gesù, per liberare i poveri. Se dovessi raccontare la mia vita tra la povera gente - e pare proprio che Dio abbia così stabilito per me - quante storie di dolore, di violenza, potrei raccontare. E nello stesso tempo come è bello vivere e farsi continuamente dona per chi non ha dona. E' davvero "vivere Cristo nei fratelli". La sanno tutti gli operatori di carità, sparsi nel mondo, che sono i meravigliosi samaritani che testimoniano che Dio è vicino a noi! Ma bisogna uscire dalla propria "casa" e mettersi in viaggio tra la gente per imbattersi nel fratello che soffre. Come faceva Gesù, secondo il racconto di Marco, che la Chiesa ci offre aggi. Una pagina di meravigliosa sensibilità e carità, che è esempio di attenzione di Dio verso chi soffre. Gesù si era allontanato dalla folla ed aveva chiesto di essere trasportato nell'altra parte del lago, seguendo la missione affidatagli dal Padre di portare la Buona Novella a tutti. E ricordiamo la tempesta sul lago, che spaventa a morte i discepoli, mentre Lui dormiva a poppa sul cuscino, e il rimprovero: "Maestro, non ti importa che noi moriamo?" E ricordiamo il rimprovero "Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?" Arrivato sull'altra sponda lo attende una grande folla lungo il mare. Qui avvengono due miracoli che mostrano da una parte la delicatezza di una fede che si fa preghiera e dall'altra la premurosa risposta del Maestro. Il primo episodio è quello di Giaìro, uno dei capi della sinagoga, che, "vedutolo, si getta ai piedi di Gesù e lo pregava con insistenza: "La mia figlioletta è agli estremi: vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva". In questa semplice preghiera c'è una grande fede, tanto grande che Lo prega "con insistenza". Gesù accoglie l'invito e, seguito da molta folla, "andò con lui". Immaginiamo la scena di questo vario corteo che invade il sentiero ed è curioso forse di sapere che esito avrà quell'avere accettato un invito a compiere ciò che solo Dio poteva compiere, ossia strappare alla morte una fanciulla... "Mentre cammina, una donna, racconta Marco, che da dodici anni era affetta da emorragia, e aveva molto sofferto, per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: "Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita" (Ci vuole una fede "da trasportare le montagne" per avere la certezza di guarire, con il solo tocco del mantello di Gesù). Mentre Giairo va da Gesù e, gettandosi ai suoi piedi, lo prega con insistenza per la guarigione della figlia, qui la fede è tanto grande da non affidarsi alla parola, ma è risposta in un gesto semplice e comune, "toccare il lembo della sua veste". "Subito, continua Marco, si fermò il flusso del sangue e sentì nel suo corpo che era stata guarita. Ma Gesù, avvertita subito la potenza che era uscita da lui, si voltò verso la folla dicendo: "Chi mi ha toccato il mantello?" Possiamo immaginare lo stupore di chi gli era vicino, a questa domanda, tanto che dissero: "Maestro, tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: chi mi ha toccato?" Ma Gesù intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: "Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male". Intanto c'è chi riferisce a Giairo che era inutile quel viaggio verso casa. "Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?" Ma Gesù: "Non temere e continua ad avere fede!" Viene accolto dal trambusto della gente che forse non si dava pace per quella morte. E Gesù: "Perché fate tanto strepito e piangete? La fanciulla non è morta, ma dorme". Ed entrato in casa, prese la mano della bambina e le disse: "Fanciulla, io ti dico, alzati!" La fanciulla si alzò e si mise a camminare" (Mc 5,21-43). Due miracoli incredibili, che hanno come sfondo da una parte la grande fede di Giairo e della donna e dall'altra la proclamazione della divinità di Gesù. Un Dio che si lascia commuovere dalla fede e sa mostrare quanto ci ama. Una grande lezione per tutti noi, che non sappiamo avere la stessa fede, ma quasi vorremmo "imporre i miracoli", che invece hanno le radici nella semplicità di cuore che mette tutto nelle mani o nel cuore di Dio, lasciando che sia Lui, poi, a fare quello che è utile per noi. "Continua ad avere fede!", ci ripete ancora oggi. Commuove, e profondamente, la grande umanità di Dio fattosi uno di noi, ieri, oggi e sempre, cha sa piegarsi sul nostro dolore e sa ascoltare, perché Lui è amore, solo amore. Quante volte potremmo anche noi, se non guarire, dare sollievo ai fratelli che incontriamo, ma non ci pensiamo nemmeno, perché non crediamo alla potenza anche di un solo gesto di amore. Ma "di Giairo e donne" come nel Vangelo di oggi, ce ne sono tanti! Bisogna allargare l'udito del cuore e farlo "parlare"! A volte sorprende anche noi come gesti di bontà, che a noi sembrano semplici, invece sono una sorgente di grande gioia. Giorni fa un missionario del Perù mi chiedeva aiuto per acquistare una Via Crucis da collocare nella sua Chiesa, situata in mezzo alle favelas, ossia ai poveri della terra. Quella Via Crucis era il sogno di quei crocifissi nella vita, che vedono nel Crocifisso la loro storia. Occorrevano mille euro che inviai subito e fu grande festa. La festa che prego per tutti noi. |