Omelia (09-07-2006) |
mons. Ilvo Corniglia |
Una costante del Vangelo di Marco è l'atteggiamento di incomprensione e di rifiuto nei confronti di Gesù da parte delle più diverse categorie di persone: dall'ostilità crescente e sempre più aperta della classe dirigente (cfr. es: Mc 2-3,6; 11-12) all'incomprensione dei parenti stessi (cfr. Mc 3,21), all'abbandono della folla che - dopo l'entusiasmo iniziale - prende le distanze da Lui, alla "durezza di cuore" dei discepoli (es: Mc 8, 17-20 etc.). Tutto questo dà un colore particolarmente drammatico alla vita e all'attività di Gesù. Quando Dio si impegna più intensamente in favore degli uomini, anzi in Gesù si coinvolge al di là di ogni misura e previsione, essi danno una risposta fallimentare e deludente. amareggiato...Con ciò l'evangelista non intende semplicemente mostrare l'umanità vera di Gesù (che spesso Marco, molto attento a registrare i sentimenti di Gesù, osserva che Egli si indigna, si rattrista, è anche si intenerisce, si commuove...), ma nella sua reazione emotiva ci fa intravedere la reazione di Dio, che non rimane indifferente alla risposta degli uomini: non è insensibile al fatto che essi prendano sul serio il suo amore oppure no. In questo contesto si colloca anche l'episodio narrato nel brano evangelico di oggi. Gesù arriva a Nazareth, il paese dove è stato allevato. Lo precede la fama di predicatore itinerante ricercato dalle folle e di operatore di prodigi. Di sabato partecipa al culto nella sinagoga e qui "incominciò a insegnare". L'effetto sull'uditorio: "Molti rimanevano stupiti". L'episodio si apre e poi si chiuderà all'insegna dello stupore. Di solito nei Vangeli lo "stupore" è il sentimento che provano quanti hanno assistito a un miracolo compiuto da Gesù e sfocia, quasi sempre, nella lode di Dio. Qui a Nazareth lo stupore parte bene. Di fronte alla sapienza del loro compaesano, che non aveva frequentato le scuole dei rabbini, si interrogano: "Che sapienza è mai questa che gli è stata data?". "Data" da Dio, si intende. La loro domanda sembra, quindi, imboccare la direzione giusta. Ma, una volta sfiorata la verità, non proseguono verso di essa: "Non è costui il carpentiere?". Abbiamo qui la domanda fondamentale, che attraversa tutto il vangelo di Marco. L'intento dell'evangelista è, appunto, portarci a trovare la risposta vera all'interrogativo che riguarda la persona di Gesù: Chi è Gesù? Chi entra in qualche modo in contatto con Lui sente affiorare immancabilmente la domanda sulla sua identità. Spesso però il problema non è tenuto aperto in un atteggiamento di ricerca e di riflessione seria. Le ragioni: superficialità, paura di convertirsi? In ogni modo prevale la fretta di dare una risposta. E ciò avviene nella direzione sbagliata: conoscono le sue origini umili, lo hanno visto crescere. Sanno tutto di Lui: è il "carpentiere", che ha ereditato il mestiere dal padre Giuseppe. E' un bravo operaio, come altri del villaggio. Conoscono sua madre: "Non è il figlio di Maria?". E' l'unica volta in cui nel Vangelo di Marco ricorre il nome della madre di Gesù. Giuseppe non viene nominato: forse è già morto. Conoscono i suoi cugini. Insomma la sua è una famiglia insignificante. E così lo stupore, invece che diventare fede entusiasta, si tramuta in scetticismo incredulo: "Si scandalizzavano di lui". La radice di tale incredulità è proprio l'incapacità di riconoscere la presenza e l'azione di Dio in ciò che è umile e quotidiano. Lo "scandalo", cioè l'ostacolo a credere, deriva dal fatto che Gesù non rispondeva alla loro immagine di Dio: un Dio che, se si manifesta, deve farlo in modo evidente e spettacolare. "E non vi potè operare nessun prodigio". Gesù ha come le mani legate. L'incredulità lo blocca. I miracoli non sono gesti straordinari destinati a impressionare la gente e a forzare l'adesione nei confronti di Gesù. Non "producono" la fede. Il miracolo è sempre una risposta alla fede. Si può "leggere" soltanto alla luce della fede ed è un appello alla fede: un appello rivolto al cuore. Ecco perché Gesù non opera nessun prodigio, ma guarisce solo pochi malati, nella misura della loro fede. "E si meravigliava della loro incredulità". Gesù prova un disagio e rincrescimento profondo, rimane "spiazzato". Lo delude e lo amareggia la falsa religiosità di quanti pretendono che Dio si manifesti soltanto nella potenza e nel trionfo, mentre non accettano che intervenga nella povertà e nella semplicità. Invece con l'Incarnazione Dio penetra nell'umanità fino al limite estremo, attraverso un "carpentiere", un uomo che soffre e muore di una morte ignominiosa. Che grazia quel giorno per gli abitanti di Nazareth, quando nella loro sinagoga hanno ricevuto la visita di Gesù e hanno ascoltato la sua parola! Che occasione! Una grazia, un'occasione che si ripete per noi, soprattutto quando ci troviamo riuniti per la celebrazione eucaristica e Gesù è in mezzo a noi. Ma essi non l'hanno preso sul serio: lo stupore, invece che diventare gratitudine e lode, diventa incredulità. Anche nelle nostre parrocchie, come nella vita delle persone, Gesù avrebbe un grande desiderio di fare miracoli, di trasformarci. Ma non può, perché non prendiamo sul serio la sua parola, i suoi Sacramenti; non prendiamo sul serio il dono che ogni domenica ci prepara. Ecco perché la vita rimane spesso appiattita e non "esplode". Ai nazaretani non è bastata la conoscenza di Gesù, la vicinanza fisica e la familiarità con Lui per riconoscere il suo mistero. Anche noi potremmo lasciarci giocare dalla falsa presunzione di avere familiarità con Gesù, di sapere tutto di Lui, ma incapaci di superare i nostri schemi per essere attenti a cogliere le sorprese di Dio. E' inquietante l'affermazione: "Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua". Gesù cita una frase proverbiale, ma si riferisce alla sua sorte. Anche oggi può accadere pure a noi di non saper riconoscere la presenza e l'appello di Dio attraverso persone che ci vivono accanto. E così ci sfugge l'occasione che Dio ci offre per convertirci al Vangelo. Come già il profeta Ezechiele (2,2-5: I lettura), Gesù a Nazareth sperimenta il fallimento della sua missione, preludio della passione. I cristiani non sono esenti da tale esperienza. E' il caso di Paolo, che nella II lettura (2Cor. 12, 7-10) ci confida una sofferenza che lo tormenta senza tregua. La descrive come "una spina nella carne". Si può discutere sul significato di questa espressione: disturbo fisico come es. una malattia cronica? Persecuzione implacabile e continua da parte dei Giudei? Dissociazione nei suoi confronti da parte di quei cristiani che non condividevano al sua linea apostolica? Si tratta comunque di un ostacolo che umanamente sembrava paralizzare o frenare il pieno ritmo del suo ministero apostolico. Se Dio gli ha affidato il compito così grande di annunziare il Vangelo, perché non lo libera dagli ostacoli (es. malattie, avversari, incomprensione dei fratelli di fede, debolezze personali...)? Per questo ha pregato con insistenza il Signore di togliergli la "spina". Ma la risposta del Signore è stata: "Ti basta la mia grazia", cioè il mio amore benevolo e fedele. "La mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza". Dalla Croce di Gesù è scaturita la suprema fecondità, perché lì la potenza infinita di Dio, che è l'amore, si è espressa al massimo grado. Così in ogni sofferenza dell'Apostolo - e di ogni cristiano - la potenza del Signore risorto si manifesta ad altissimo livello. Paolo, allora, vive ogni sfaccettatura del dolore in comunione col Crocifisso, consapevole che la potenza del Risorto "dimora" (come Dio "dimorava" nel santuario del tempio) nell'Apostolo provato e sofferente. Perciò può dire: "Quando sono debole, è allora che sono forte". Quando incontro resistenza e sperimento la fatica, il fallimento nell'esercizio della missione cristiana, nell'opera educativa, nelle relazioni familiari e sociali, mi ritrovo nell'atteggiamento di Paolo? Gesù non si arrende, ma, rifiutato a Nazareth, "percorreva i villaggi, insegnando". Sono perseverante? Dopo l'ennesima sconfitta, so ricominciare e proseguire con tenacia? Gesù "si meravigliava della loro incredulità". Gesù qui e ora, presente tra noi durante la celebrazione eucaristica, forse "si meraviglia" della mia e nostra incredulità? Quasi ci dica: come fate a non credere? E se invece potesse "meravigliarsi" della mia, della nostra fede, come osservano alcune volte i Vangeli (cfr. es. Mt 8,10; 15,28)? |