Omelia (23-07-2006) |
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* "Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'". In questi giorni di mezza estate queste parole di Gesù agli apostoli appena tornati dalla missione che lui stesso aveva loro affidato (III lettura), risuonano in maniera del tutto particolare. Forse molti di noi stanno trascorrendo un periodo di riposo e di vacanze lontano dalla propria casa, alla ricerca di un po' di ristoro e di un respiro rigenerante. Le parole di Gesù fanno riferimento ad un luogo altro, in disparte, e ad una situazione altra, in solitudine, ad un distanziamento dalla vita quotidiana, dalle nostre responsabilità e dalla trama delle cose e delle relazioni che riempiono i nostri giorni. * Perché l'essere in disparte e la solitudine sono il luogo di un riposo? Perché in disparte, fuori da ciò che vivo ogni giorno, mi accorgo che io sono di più di tutto ciò che faccio, e che la verità della mia vita è di più della somma di tutte le mie attività. Perché l'inattività mi mette il sospetto che tanta parte di me sia nascosta anche in ciò che non faccio, e i vuoti dentro di me sono portatori di un segreto insospettabile all'affannarsi quotidiano. Io vivo anche dei miei vuoti, di ciò che non riesco a fare, delle mie fami e dei miei desideri, anche di quelli che non riesco a realizzare, ma che mi rimangono dentro e dicono chi sono veramente. * Perché da solo, e lontano, io posso sperimentare che anche se manco il mondo non crolla, e questo mi restituisce a quella sana e concreta non indispensabilità che mi aiuta a vivere umanamente, senza nessun delirio o vertigine di onnipotenza o di indispensabilità. Così le relazioni si purificano un po', il rischio di invadenza e di sfruttamento reciproco si allenta, il rispetto per l'alterità dell'altro si fa più forte. E io da lontano mi rendo conto meglio se il mio amore e la mia responsabilità si sta coniugando bene con la mia capacità di rispetto. * Perché lontano le cose si vedono meglio, e spesso quello che mi manca nella corsa di tutti i giorni, dedicati quasi esclusivamente all'attenzione prestata ai particolari e alla premura nei confronti dei singoli passi, è lo sguardo d'insieme, che colga i nessi tra le cose e le situazioni. E la verità della mia vita sta nei nessi più che nei particolari. Perché in disparte, e da solo, posso pensare. E io posso far fiorire la mia vita di pensiero, quella che mi fa sostare accanto alle persone che amo guardandole, quella che mi fa tenere dentro le cose viste e ascoltate senza intervenire subito, se non dopo aver ragionato sulle situazioni, sulle parole, sulle reazioni. E mentre penso divento più pacato, la conflittualità si stempera e perde di arroganza e presunzione, l'immaginazione mi fa mettere dal punto di vista degli altri. Ma questo lo posso fare solo imparando a stare da solo. Le scienze umane non si stancano di dirci che solo chi ha acquistato una buona intimità con se stesso saprà viverla con gli altri, e solo chi si ama può amare chi gli vive accanto. Ecco: l'essere in disparte e la solitudine sono il luogo in cui esercitarsi nell'arte di avere con se stessi un buon rapporto. Per prendere bene posto nella vita di tutti i giorni. * Gesù nel suo invito inizia però dà una esortazione precisa: "Venite!". L'invito è a stringere un rapporto più stretto con lui, ad assumere in questa relazione con lui il suo stesso atteggiamento nei riguardi della vita, delle persone, del tempo. Allora guardare le cose come le guardava lui diventa il vero riposo, pensare secondo il suo spirito e vivere nel suo stile può essere una esperienza rigenerante e ristoratrice. Perché è il Signore a metterci al posto giusto nella vita, è lui che ci fa andare ad incastrarci come tessere esatte nel grande puzzle dell'esistenza. Vivere bene, al proprio posto, coincide con l'essere suoi veri discepoli, persone che vivono l'avventura della vita come l'ha vissuta lui. * E il posto giusto è quello della pace: "Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione" (II lettura). La via della pace è percorsa da Gesù con alcuni atteggiamenti, che possiamo imparare da lui: il primo è quello di commuoversi per gli altri (III lettura). Egli guarda la gente e se ne commuove, se ne lascia toccare, sente la sua sorte come la propria. Si vive al proprio posto, nella vita, imparando a commuoversi per tutto ciò che ci circonda. La vera sfida dentro di noi è quella di vincere ogni apatia, ogni indifferenza, ogni forma di insensibilità. Sembra il contrario della pace e del riposo, e invece è l'unica via. Quando impareremo ad ascoltare la voce di ogni persona, di ogni essere, quando ce ne lasceremo coinvolgere, sentendocene responsabili, allora saremo in pace. Ma solo se prima avremo imparato a stare da soli sapremo farlo senza far diventare il coinvolgimento e la commozione alibi per invadere la vita altrui, stampelle a cui appoggiare le nostre incapacità di camminare a soli. * Il secondo insegnamento che possiamo apprendere da Gesù è quello di insegnare (III lettura), che è una forma di quel modo di vivere che il profeta Ezechiele chiama pascere gli altri (I lettura), di dare il nostro contributo perché la vita intorno a noi, dentro noi e dentro gli altri, cresca. Possiamo scambiare con chi incontriamo parole vere, quelle che ci hanno preso l'anima, o quelle a cui affidiamo l'espressione della nostra anima. E anche a questo il silenzio e la solitudine delle vacanze estive servono: a dare un po' di qualità alla nostra comunicazione interpersonale. A dire non solo ciò che abbiamo trovato, ma anche ciò che stiamo ancora cercando. Se nel silenzio abbiamo trovato anche i nostri vuoti, quelli che ci portiamo dentro, anche quelli non avremo paura di dire, di condividere con chi ci sta accanto. Non si è maestri solo dicendo ciò che è davvero nostro, e perciò capaci di comunicare ciò che abbiamo imparato dalla vita, dalla fede, dalla riflessione su ciò che abbiamo vissuto. Si è maestri anche imparando a fermarsi, a cambiare strada, a cercare meglio. * Gesù, in questa lettura odierna, non ci è forse presentato mentre si ferma stanco, bisognoso di allontanarsi dall'impegno quotidiano e pur decisivo della predicazione? E poi non lo vediamo di nuovo interrompere il suo cammino, cambiare il suo programma, lasciarsi inondare dall'imprevista commozione, mentre comincia a saziare la fame di quelle persone con le sue parole autorevoli, da autentico maestro? Lui e i suoi cercavano silenzio e riposo, la gente cercava parole grandi, tutti cercavano qualcosa. La ricerca, il bisogno, la fame, sono diventati il luogo in cui si sono sentiti vicini, si sono incontrati. Fame di autenticità, di verità, di umanità, al di là di ogni programma, di ogni previsione. Così noi, ogni volta che diamo profondità ai nostri incontri, la smettiamo di fare gli attori e - dismessa la maschera - diciamo parole vere, parole nostre, parole che sgorgano dalle profondità della nostra vita, possiamo dire di essere anche noi, reciprocamente, maestri gli uni degli altri. Al di là di ogni titolo di studio, di ogni abilitazione professionale, di ogni riconoscimento ufficiale. Siamo maestri perché parliamo, e siamo maestri perché, prima di parlare, nell'in disparte e nella solitudine, abbiamo ascoltato le voci della vita. Le voci di Dio. Commento a cura di don Gianni Caliandro |