Omelia (20-08-2006) |
don Roberto Rossi |
Carne e sangue per la vita eterna Nel vangelo di Giovanni oggi leggiamo l'ultima parte del "discorso sul pane di vita" di Gesù. Alle contestazioni dei giudei Egli afferma la realtà del suo dono. La sua carne e il suo sangue comunicano la vita divina all'uomo e lo trasformano in nuova creatura. Gesù non fa nulla per sfruttare la popolarità del momento, né per ammorbidire le sue affermazioni, in aperto contrasto con quanto stavano immaginando i suoi ascoltatori. Anzi, sembra quasi avere il gusto della provocazione... «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna... dimora in me e io in lui». «Bere il sangue»: non si poteva pensare un'espressione più scandalosa per gli ebrei del suo tempo. Il sangue era sinonimo di vita. E quindi non si poteva bere il sangue per non creare commistione di vita. Ecco perché la macellazione degli animali avveniva in modo da far uscire dal corpo tutto il sangue. Ecco perché i conterranei di Gesù guardavano con orrore alla carne preparata dai pagani, che non aveva subito un trattamento analogo. Quando Gesù invita tutti a «bere il suo sangue» sa bene che irriterà, scandalizzerà, provocherà rifiuto, contrasto, disapprovazione. E allora perché lo fa? Non poteva scegliere un'immagine meno forte? Non poteva evitare accuratamente di ferire le orecchie dei fedeli del suo tempo? In fondo conosceva bene le loro tradizioni e anche le loro «manie»... Certo, a noi, preoccupati di una comunicazione che crei consenso, sta a cuore soprattutto che Gesù trovi approvazione da parte del suo pubblico. Ma per Gesù quello che conta veramente è una presentazione chiara e nitida di ciò che egli offre, perché lo si possa accettare o rifiutare liberamente. La verità, dunque, anche se dura, anche se ostica, anche se poco gradevole, conta di più di qualsiasi altra cosa. E noi sappiamo che è una verità di salvezza, una verità consolante, benefica. Il sangue è la vita? Sì, e Gesù ha dato proprio la sua vita per noi. «Mangiare la sua carne e bere il suo sangue» significa entrare in una comunione profonda con Lui, nella sua vita. Carne e sangue potranno sembrare termini esagerati se non si è passati attraverso l'esperienza che Gesù propone. Ma se si è avvertito il vincolo di amore che egli ha verso di noi, allora non vi è nulla di eccessivo. Del resto, proprio nello stesso brano, Gesù ci fa intravedere una realtà che è essenziale per il discepolo. Troppe volte si parla di «sequela» in termini di distacco: per seguire il Cristo dobbiamo abbandonare, lasciare tutto... Ma la vita cristiana non è solo questo: è anche «essere abitati» da Cristo e «abitare» in Cristo, uniti a lui in modo intimo e profondo. «lo sono il pane vivo disceso dal cielo. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue vivrà in eterno e io lo risusciterò nell'ultimo giorno». È la frase centrale del dialogo di Gesù con la folla che lo aveva cercato per avere ancora il pane gratis. È l'affermazione che spingerà la folla delusa ad abbandonarlo, e che, oggi, chiede a noi di verificare e rinnovare la nostra fede nelle sue parole. Cosa vuol dire Gesù? Nella messa non mangiamo il corpo di Gesù nato da Maria. Non potremmo. Non siamo cannibali! Quel corpo era legato al tempo e al luogo. Ora non c'è più. Ma mangiamo il suo corpo risorto, uscito dal sepolcro la mattina di Pasqua, vittorioso sulla corruzione e la morte. Questo corpo possiamo mangiarlo, perché è Dio. Quindi: infinito, dovunque, al di fuori del tempo e dello spazio, inesauribile, presente nella sua interezza in ogni frammento di pane e in ogni goccia di vino consacrati. La messa è nutrirsi di Gesù risorto; è un pezzo di risurrezione che entra e cresce dentro di noi. E' una cosa straordinaria. La messa non dà qualcosa di buono, di santo, di grande,... La messa fa essere. Fa essere Gesù risorto: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui». Questo dimorare in lui e lui in noi ci fa diventare lui e ci spinge di giorno in giorno verso la vita eterna. Che non è un' altra vita, ma questa nostra vita che raggiunge la sua pienezza. Il paradiso non è un luogo disperso tra le stelle. È vivere per sempre in Dio. Pensiamo a una rosa. Il fiore sbocciato non è per l'arbusto un' altra vita, ma la sua stessa vita che, grazie al terreno buono, al concime, all'aria, al sole, all'acqua, raggiunge il suo scopo finale, la pienezza: il fiore. Così è di noi. Il pane del cielo è il terreno buono, il concime, l'aria, il sole, l'acqua che di giorno in giorno ci portano verso lo scopo per cui siamo stati creati, verso la pienezza: la vita eterna. Affinché questo avvenga, non basta che il Risorto entri in noi, è necessario che noi dimoriamo in lui, cioè che viviamo come lui è vissuto: una vita vera, buona, bella, fedele al Padre e ai fratelli. La messa è un dono che agisce se viene accolto e trafficato. Il pane vivo ci porta verso la risurrezione se viviamo da risorti: da uomini saggi, secondo la volontà di Dio. Non è facile capire le parole di Gesù. Ci aiuta Maria, una creatura come noi che è quello che noi saremo. È stata assunta in cielo, è sbocciata alla risurrezione, perché Gesù ha dimorato in lei e lei in lui. È la nostra speranza. Anche noi sbocceremo alla vita eterna, se, come lei, crediamo nell'adempimento delle parole del Signore: tutte le sue parole, anche: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue vivrà in eterno» |