Omelia (20-08-2006)
mons. Vincenzo Paglia


Il Vangelo di questa ventesima domenica conclude il discorso di Gesù tenuto nella sinagoga di Cafarnao. Il senso delle sue parole – come anche del miracolo della moltiplicazione dei pani – si è fatto sempre più chiaro. A voce alta Gesù dice: "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Chi mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo". Tutti sono ad ascoltarlo, ma i più sono così intenti a pensare ai propri vantaggi da non comprendere la novità evangelica. Nel suo discorso Gesù non manca di porre riferimenti al Primo Testamento per facilitare la comprensione delle sue parole. Ha esplicitamente parlato della manna, che il libro della Sapienza presenta come "cibo degli angeli, capace di procurare ogni delizia e manifestazione della dolcezza di Dio verso i suoi figli" (Sap 16, 20-21). Nella memoria degli ascoltatori risuonavano i numerosi passaggi ove la comunione con Dio veniva espressa con le immagini del banchetto. Nel libro dei Proverbi si scrive che la Sapienza ha imbandito un banchetto e invita tutti: "Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato. Abbandonate la stoltezza e vivrete, andate diritti per la via dell'intelligenza"(9, 4). Il pranzo – manifestato con il pane e il vino – è il simbolo della comunione e dell'intimità che la Sapienza offre al popolo d'Israele. Ed era già chiaro che non si trattava solo del pane materiale. Il profeta Amos diceva che gli uomini non avevano solo "fame di pane né sete di acqua ma di ascoltare la parola del Signore"(8, 11-12).
Gesù, con il tema del banchetto, raccoglieva le pagine della Scrittura e le portava a compimento. Egli stesso preparava ora una mensa a cui invitava tutti. Lo scandalo degli ascoltatori però non riguardava questo tema; giunse quando egli iniziò a chiarire che il pane del banchetto era lui stesso, il suo corpo (in aramaico, com'è noto, invece del termine "corpo" si usava la parola "carne" che indicava la persona intera). Gli ascoltatori si chiedevano tra loro: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?". Discutevano su cosa volesse intendere con queste parole. Ed era più che comprensibile. Anzi facevano bene, perché era (ed è) davvero straordinario quello che Gesù stava dicendo. Eppure, bastava chiedere, bastava cercare una spiegazione interrogando Gesù stesso. Essi, invece, non volevano umiliarsi a chiedere spiegazioni; erano sicuri della loro sapienza. I poveri e i mendicanti non hanno paura di chiedere e neppure di essere anche petulanti: per loro, mendicare è questione di vita o di morte. Coloro che sono sazi delle proprie convinzioni o sazi di pane, non si abbassano e non chiedono, semmai mormorano e giudicano. Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, è ancor più esplicito e afferma: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo resusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui".
Questo linguaggio di Gesù è molto concreto, sino ad essere scandalosamente crudo. "La carne e il sangue" indicavano l'uomo intero, la persona, la sua vita, la sua storia. Se alla samaritana, incontrata al pozzo, Gesù aveva detto che avrebbe potuto darle "acqua viva", ora propone la sua stessa persona come "il pane della vita". Gesù offre se stesso ai suoi ascoltatori; potremmo dire, nel senso più realistico del termine, che si offre in pasto a tutti. È sua vocazione divenire un uomo mangiato, consumato, spezzato, versato. Davvero Gesù non vuole conservare nulla per se stesso e offre tutt'intera la sua vita per gli uomini. L'Eucarestia, questo mirabile dono che il Signore ha lasciato alla sua Chiesa, realizza la nostra misteriosa e realissima comunione con lui. Paolo con energia dice ai cristiani di Corinto: "Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?"(1 Cor 10, 16).
Tutto ciò interroga il nostro modo di accostarci all'Eucarestia. Quante volte purtroppo si cede a quella stanca abitudine che peraltro priva coloro che si accostano all'Eucarestia di gustare la dolcezza di questo, tenero e sublime mistero d'amore. Un mistero d'amore così alto che deve far pensare a ciascuno di essere sempre e comunque indegno di riceverlo. Infatti, la Santa Liturgia, anche dopo la più perfetta delle confessioni, ci fa ripetere le stesse parole del centurione: "O Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto". Sì, non siamo mai degni di accostarci al Signore. È una verità che tanto spesso dimentichiamo. È il Signore che ci viene incontro; è lui che si avvicina a noi sino a farsi cibo e bevanda. L'atteggiamento con cui dobbiamo avvicinarci all'Eucarestia deve essere quello del mendicante che stende la mano, del mendicante di amore, del mendicante di guarigione, del mendicante di conforto, del mendicante di sostegno. Narrano le antiche storie che una donna si recò da un padre del deserto confessandole di essere assalita da terribili tentazioni e che spesso ne era travolta. Il santo monaco le chiese da quanto tempo non faceva la comunione. Ella rispose che erano ormai molti mesi che non riceveva la santa Eucarestia. Il monaco le rispose dicendole più o meno queste parole: "provi per altrettanti mesi a non mangiare nulla e poi venga a dirmi come si sente". La donna capì quanto le aveva detto il monaco e cominciò a fare regolarmente la comunione. L'Eucarestia è cibo essenziale per la vita del credente, è anzi la sua stessa vita, come Gesù stesso, chiudendo il suo discorso, afferma: "Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me". Il Signore sembra non chiederci altro se non di rispondere al suo invito e gustare la dolcezza e la forza di questo pane che egli gratuitamente e abbondantemente continua a donarci.