Omelia (17-09-2006) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Il Messia che offre e soffre "Messia" è una parola ebraica che tradotta in greco diventa "Cristo". In italiano "cristo" vuol dire unto, cioè "contrassegnato con l'olio". Nell'Antico Testamento si ungevano diverse persone designate da Dio per lo svolgimento di una particolare missione presso il popolo, ma durante il periodo della monarchia l'unto per eccellenza era il monarca, la cui funzione era quella di essere latore della volontà di Dio presso i sudditi. Il messianismo ha voluto sempre un re insigne per grandezza, che esercitasse un dominio incontrastato e la cui potenza fosse sempre manifesta ed è per questo che il termine Messia attribuito a Gesù suscita non poche perplessità e molteplici problematiche. Tale definizione (Messia) mette in difficoltà persino lo stesso Pietro che in un primo momento riceve da Gesù l'elogio per aver professato in lui una fede profonda senza precedenti (Nel Vangelo di Matteo viene istituito immediatamente "pietra", fondamento della Chiesa"); in un secondo momento viene però respinto con l'appellativo aspro e categorico di Satana! Il fatto è che Gesù è sì il Cristo, il Messia unto da Dio per la salvezza dell'umanità nonché Signore e Re dell'Universo, tuttavia il suo messianismo è ben lungi da quello a cui tutti alla sua epoca erano abituati: lui è messia in quanto servo sofferente che si umilia, compatisce e dona se stesso in riscatto dell'umanità. Non un Messia o Cristo potente e altisonante in maestà, ma un Cristo che annichilisce se stesso abbassandosi inesorabilmente per servire gli uomini palesando la volontà di misericordia di Dio attraverso i della parola, dell'insegnamento e soprattutto dell'intervento prodigo e sollecito verso i poveri, i sofferenti, gli esclusi e gli emarginati. Il suo essere Messia Gesù lo aveva esternato più volte nell'esercizio dei miracoli che erano la pedagogia diretta dell'amore del Padre verso l'umanità, così come in tutte le sue azioni di amore salvifico e provvidente, ma l'esplicitazione effettiva del suo messianismo si rivela in un espediente che la nostra comune mentalità definisce insolito quanto paradossale: quello della propria autoconsegna alla croce che mostra la carica messianica di Gesù non già nella caratteristica della potenza e della forza prorompente quanto nella debolezza e nell'umiliazione. Anzi, sono proprio annientamento e debolezza gli elementi costituitivi della potenza messianica di Gesù; come affermerà poi San Paolo, quello che è debole per gli uomini è costitutivo di potenza per il Messia Gesù Cristo. Gesù è insomma un Messia che soffre e che offre. Per riscattare l'uomo dalla vicenda miseranda del peccato, Gesù dona infatti la propria vita non disdegnando il patibolo della croce e consegnandosi ad esso volentieri, ben conscio che quella è la volontà del Padre per la salvezza definitiva dell'umanità. Come si sa, non vi è mezzo più congeniale per aiutare un debitore insolvente se non quello di pagare noi stessi tutte le sue pendenze; in tal modo lo si libera da un grosso gravame e gli si risparmiano tutte le conseguenze possibili quanto ai ricorsi dei creditori; ora nell'ottica dell'amore sconfinato del Padre non vi era altro mezzo migliore per riscattare il debito ingente di peccati dell'umanità se non che il Figlio lo estinguesse per noi pagando egli stesso il nostro prezzo con il sangue sparso sulla croce. Questa era la via necessaria e indispensabile perché l'uomo si salvasse e pertanto era indispensabile che Gesù, in quella circostanza, si recasse a Gerusalemme luogo della morte. Ecco perché Pietro viene redarguito: è ancora abituato alla mentalità di potenza umana del tutto semplice e immediata e rifiuta categoricamente la volontà di Dio di salvare l'uomo attraverso la morte di Dio stesso sulla croce; il suo è un interesse filantropico, forse anche dettato dalla buona fede e dall'amicizia terrena, tuttavia è ben lungi dal mostrare di aver compreso l'essere Messia di Cristo che è soffrire per offrire. Abbiamo accennato più volte alla croce, il che ci invita ad intrattenerci in alcune considerazioni: innanzitutto essa viene menzionata solo in questa circostanza (prenda la propria croce tutti i giorni e mi segua), mai negli episodi della passione e della morte di Gesù; in secondo luogo, immediatamente dopo il rimprovero rivolto a Pietro, Gesù la propone a tutti quanti noi quale condictio sine qua non per essere noi suoi discepoli: ci invita cioè a non ripudiarla ma anzi ad abbracciarla come compagna di viaggio e a considerarla come uno strumento di battaglia per la vita di tutti i giorni. Contrariamente a quello che farebbero oggigiorno alcuni genitori ("Mio figlio non deve soffrire quello che ho sofferto io da giovane") Gesù chiede che noi soffriamo come lui, anche se in modo proporzionato al nostro stato e alla nostra possibilità, minacciando che evitare la croce per il comodismo e per il successo facile è tutt'altro che garanzia di vita. Com'è possibile che Gesù sia tanto pretestuoso? Perché un Dio che si definisce amore e provvidenza nonché giustizia vuole la sofferenza dei suoi figli? Prima di rispondere, osserviamo un attimo come stanno le cose nel mondo: credenti e non credenti, Islamici, Buddisti, Taoisti, Cristiani, Confuciani... tutti quanti seguono il medesimo destino inevitabile di dover soccombere alle ingiustizie da parte degli altri e di dover tacere di fronte ai soprusi e alle sventure; tutti si deve lavorare e spasimare con fatica per il pane quotidiano e non di rado avviene che nonostante gli sforzi continui neppure lo si consegue; tutti nessuno escluso si sperimenta il divario fra i ricchi sempre più protetti e sostenuti e i poveri sempre più abbandonati, sfruttati e oppressi; dappertutto si fa' esperienza di malattie fisiche che conducono prematuramente alla morte e del dolore che a costringe molte persone al letto o sulla sedia. Tutti insomma, vuoi o non vuoi, si soggiace allo stesso destino di sofferenza, non importa quale sia il nostro credo o la nostra convinzione religiosa. Ma il modo di reagire e di porvi rimedio è differente. Vi è chi incappa nel baratro della disperazione concludendo di togliersi la vita, chi si illude di poter eludere l'ostacolo dandosi al vino o alle droghe, chi si rassegna, chi sopporta, chi ricorre alla filosofia e alle interpretazioni vacue della realtà appena descritta... Chi finalmente attribuisce un senso a tutto questo sistema di sofferenza nell'appellativo della croce. Ed è questo il caso nel quale tutto il malessere che ci assilla viene raffrontato al soffrire messianico di Gesù, il che vuol dire che i nostri mali sono pari a quelli da lui sofferti nella croce, condivisibili e pertanto possibili ad essere accettati nel suo nome; si ha soprattutto la probabilità di condividere il nostro dolore con quello del Crocifisso e come afferma San Paolo di "completare nella nostra carne quello che manca ai patimenti di Cristo" per essere anche noi con lui partecipi della stessa missione di riscatto e di salvezza dell'umanità. In tale caso il dolore e le ingiustizie anche se pesanti si alleviano e ogni cosa la si sopporta con molta più propensione e speditezza perché in essa si trova lo sprone per il quale vale la pena che venga affrontata. Ma soprattutto si coltiva la certezza che la croce non è mai fine a se stessa ma avrà sempre uno sbocco glorioso nello stesso destino di Cristo, che è quello della Resurrezione per la vita. Quindi l'invito a non cadere nella tentazione di evitare la croce ha la sua consistenza e findatezza; non soltanto essa è inevitabile già in partenza ma se la si guarga appunto come croce, nella piena partecipazione a Cristo morto sul patibolo, essa permette che noi viviamo e coltiviamo nella fiduicia e nella speranza quello che altri probabilmente vivono nell'abbandono e nella disperazione poiché ci conforma a Colui che l' ha abbracciata per primo sotto un peso molto più assillante per poter anche noi soffrire e offrire insieme a lui. |