Omelia (17-09-2006) |
mons. Ilvo Corniglia |
Nell'itinerario formativo, che i discepoli percorrono alla scuola di Gesù, questo episodio è di capitale importanza. Gesù desidera verificare il grado di maturità nella fede, che hanno raggiunto vivendo con Lui, e provocarli a una più decisa presa di posizione nei suoi confronti. È quanto vuol fare anche con noi, in particolare quando lo incontriamo insieme nell'Eucaristia domenicale. La prima domanda non è molto impegnativa. È una specie di "sondaggio" di opinione: la gente cosa pensa, cosa dice di Lui? Non è tanto interessato a sapere che cosa si pensa sul suo insegnamento, sulla sua attività, ma su di Lui. Questo è decisivo per Gesù. Al centro non sta il suo annuncio, ma la sua persona. La gente – così risulta da una facile indagine – manifesta un'alta opinione su Gesù, nutre una grande stima per Lui. Ma dimostra di non aver colto la sua posizione singolare, la sua novità e originalità. Lo colloca infatti tra i grandi personaggi della storia religiosa di Israele: un profeta..Giovanni Battista...Altri inviati di Dio sono venuti prima di Lui, altri ne verranno. Uno dei tanti "grandi", ma non l'unico. Un sondaggio analogo, che noi potremmo tentare oggi tra la gente della nostra città, del nostro quartiere, del nostro condominio, potrebbe dare un risultato diverso? A questo punto, Gesù imprime una svolta inattesa al dialogo, ponendo ai discepoli una seconda domanda, che è diretta, immediata, coinvolgente: "E voi chi dite che io sia?". Io chi sono per te, per ciascuno di voi, per la vostra comunità? Non si può sfuggire al carattere personale di questa domanda e alla sua forza di provocazione. Ognuno di noi è obbligato a interrogarsi nel suo cuore, non accontentandosi di qualche formula imparata a memoria e ripetuta meccanicamente, ma cercando di capirne il significato profondo. La risposta che dà Pietro a nome dell'intero gruppo è una stupenda confessione di fede sull'identità di Gesù: "Tu sei il Cristo (= il Messia)". Cioè l'unico, ultimo e definitivo Re e Pastore del popolo di Israele, l'inviato da Dio per dare a questo popolo e a tutta l'umanità la pienezza della vita. Quella di Pietro non è una semplice dichiarazione, ma una scelta entusiasta, un impegno di vivere con Lui. È una scoperta grande, senza dubbio. Gesù però, pur soddisfatto per il traguardo che i discepoli hanno raggiunto nel loro cammino di fede, sa che molta strada resta da fare perché tale fede, ancora acerba, diventi più chiara e matura. A tale scopo imprime una svolta alla sua opera educativa: "E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire...venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare". È il primo dei tre annunci della Passione- Morte –Risurrezione che Gesù in diverse riprese fa ai discepoli durante il viaggio verso Gerusalemme. Un tragico destino lo attende. Egli ne parla "apertamente", senza esitazione e con lucida consapevolezza. Sa bene che le sue scelte in favore dei peccatori e dei "lontani", il suo stile di vita libero da ogni forma di legalismo, ma tutto incentrato nell'amore, provocano l'opposizione e la resistenza da parte dei responsabili di Israele. Sa di avere molti nemici, che cercano di eliminarlo e che presto o tardi ci riusciranno. Gesù intravede, quindi, il fallimento umano della sua missione: "doveva molto soffrire e...venire ucciso". Tale "necessità" non è legata però a un destino cieco e crudele; non è neppure soltanto la conseguenza "logica" del suo comportamento contro corrente. Ma il verbo "doveva" indica il disegno di Dio, misterioso e insindacabile, che deve compiersi nella storia. Disegno annunciato già, sia pure oscuramente, nella S. Scrittura (cfr. es. Is. 50, 5-9; I lettura). Un disegno d'amore che si attua attraverso vie e modi non conformi alla logica umana, ma in contrasto stridente con essa. Tale piano divino, però, non riguarda soltanto la sconfitta umiliante del Messia, ma anche la sua suprema glorificazione: "doveva...dopo tre giorni risuscitare". Anche quest'ultima parte dell'annuncio rimane oscura, tanto che i discepoli non la prendono in considerazione. Sono invece "shoccati" dall'annuncio della passione e della morte. Riconoscendo in Gesù il Messia promesso, Pietro e i suoi compagni pensavano al Liberatore politico e militare che con la forza di Dio avrebbe vinto tutti gli oppressori del suo popolo, instaurando una condizione di pace universale. Gesù invece rivela un aspetto del Messia che li coglie impreparati e li "spiazza" radicalmente: il Salvatore inviato da Dio non sbaraglierà gli avversari con una vittoria totale. Ma subirà la sconfitta. E questo perché, in umile obbedienza al disegno di suo Padre, percorrerà la via dell'amore che si fa servizio fino al dono della propria vita. In tal modo rivelerà un volto inedito e insospettato di Dio: non il Dio che schiaccia con la sua potenza, ma un Dio debole e "perdente", che condivide fino all'estremo la condizione dell'uomo peccatore e così lo ricupera. L'incomprensione e il rifiuto di un Dio così si manifestano nella reazione di Pietro: "lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo". La contro-reazione di Gesù è però quanto mai forte. Se Pietro rimproverava Gesù ora Gesù "rimproverò Pietro" (il verbo è identico). Lo fa "guardando i discepoli" (che sicuramente condividono il pensiero del loro compagno ): "Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini". Non può darsi che anche noi ragioniamo come Pietro e gli altri discepoli? Anche noi, come loro, spesso siamo prigionieri di un'immagine di Dio che – se è potente e buono – non può permettere il dolore in tutte le sue forme e dovrebbe sopprimere quanti operano il male. Questo Dio però non è il Dio di Gesù. Il rimprovero rivolto a Pietro è quindi anche per noi. Ci siamo lasciati educare finora da Gesù a riconoscere questo aspetto essenziale nella figura del Salvatore e nel vero volto di Dio? Accettiamo che il Messia ci salva attraverso il dolore vissuto nell'amore? Siamo consapevoli che la gloria e la suprema felicità rimangono il traguardo certo per Gesù e anche per noi, ma la via per raggiungerle è la "via della croce"? Gesù, tuttavia, non si limita a esigere dai discepoli che lo riconoscano come il Messia crocifisso-risorto. Ma li chiama ad abbracciare le sue stesse scelte e il suo stile di vita, spiegati soltanto dall'amore. Le sue parole non riguardano soltanto i discepoli più stretti, ma anche la "folla": "Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso...". Il discepolo deve essere pronto a spostare ogni sua visione della vita, a dire di no a ogni suo progetto, che non collimino con quelli del suo Maestro. "Prenda la sua croce e mi segua". Gesù si riferisce all'usanza romana della crocifissione: il condannato riceveva sulle spalle il legno trasversale (patibulum) e si avviava al luogo dell'esecuzione tra gli insulti e i compatimenti della folla. Chi legge il Vangelo sa che questa è la stessa sorte subita da Gesù. Il discepolo, che aderisce a Lui, non può non mettere in conto tale prospettiva, cioè il "martirio". Ma già ogni giorno l'amore a Cristo può richiedergli tagli, rinunce, incomprensioni, disprezzo, che gli procurano sofferenze. Ogni giorno cioè è chiamato a "prendere la sua croce" dietro a Gesù. "Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà". Chi è attaccato alla propria vita e vuole difenderla a ogni costo, fosse anche col tradimento del proprio Maestro, in realtà "perderà"la vita vera, quella eterna. Chi invece, per rimanere fedele a Gesù e al Vangelo, arriva anche a perdere la propria vita, la ritroverà in pienezza. Queste parole di Gesù alludono al martirio, che non è una semplice eventualità nell'esistenza del discepolo. Ma esprimono anche la legge fondamentale della vita cristiana e di ogni vita autentica: il donarsi, che è l'essenza dell'amore, comporta il "saper perdere" infinite cose, il dimenticarsi, il "decentrarsi", il mettersi da parte, il "non essere" perché l'altro sia. Quante volte però – ognuno può interrogare la sua esperienza -, tocchiamo con mano che proprio così, "perdendo" la nostra vita, ci sentiamo più felici e più realizzati, più vivi! Perdere per ritrovare, perdersi per ritrovarsi. In questa dinamica Gesù legge la realtà della sua esistenza e il mistero della sua morte- risurrezione, come pure il significato del cammino di quanti lo seguono. La vita si salva perdendola, cioè donandola per amore. Ciò può avvenire una sola volta con la morte fisica. Ma la vita può essere data anche goccia a goccia in ogni gesto quotidiano motivato dall'amore e compiuto con amore. Quando, recitando il Credo, professiamo che Gesù è "Cristo e Signore", noi esprimiamo la sua vera identità. Ma il contenuto profondo di questi titoli (=il Messia crocifisso-risorto, che salva col dolore trasformato dall'amore) lo accettiamo veramente? Proviamo a verificare in che misura questa convinzione di fede è radicata in noi, soprattutto quando ci scontriamo con la realtà del male e del dolore nelle sue forme più diverse. Sarà bene chiedermi ogni tanto: in questo momento sto pensando "secondo Dio" o "secondo gli uomini"? Le condizioni che Gesù enuncia per essere suo discepolo mi impressionano? Come attuarle concretamente? |