Omelia (24-09-2006)
mons. Ilvo Corniglia


Il brano dal libro della Sapienza (2, 12.17-20) presenta due categorie di persone che sono nettamente contrapposte. Da una parte "gli empi", cioè i pagani senza Dio e i giudei che sono caduti nell'infedeltà; coloro che vivono come se Dio non ci fosse, escludendo ogni riferimento a Lui. Dall'altra "il giusto", che indica tutti i credenti rimasti fedeli al Signore; coloro per i quali il senso della vita è la relazione con Dio e l'attenzione alla sua volontà. Gli "empi" perseguitano il "giusto" e tramano per ucciderlo. Il motivo? Non accettano il suo comportamento, che è un rimprovero vivente della loro condotta. Non tollerano che manifesti la convinzione serena di avere Dio come Padre. Questa esperienza si ripete costantemente nella storia ed è stata vissuta in modo specifico da Gesù, il "Giusto" per eccellenza, nella sua passione (cfr. Mt 27,43; Eb 12,3). Nel contesto del libro della Sapienza il nostro brano insegna che rimanere fedeli a Dio e alla sua volontà, anche a costo di varie sofferenze, è l'unico comportamento veramente saggio e fonte di felicità.
Il testo evangelico di oggi ci mostra Gesù in viaggio verso Gerusalemme, in compagnia dei discepoli (più specificamente, i Dodici). Essi rappresentano la comunità di Gesù, sono la Chiesa nel suo nucleo primordiale; ma ne sono anche i pastori e responsabili. E' questo un dato costante nel Vangelo di Marco. Si pensi es. all'espressione "Gesù con i suoi discepoli" oppure "Gesù e i suoi discepoli" e ancora "i discepoli (i Dodici) con Gesù", che ricorre con frequenza martellante: dov'è Gesù, non possono mancare i discepoli; dove sono i discepoli, lì è presente Gesù, inseparabilmente. Gesù non sta senza i discepoli né i discepoli senza di Lui. Egli si fa presente, si dice attraverso i discepoli, attraverso la Chiesa. In che modo? Attraverso la loro predicazione, ma prima ancora attraverso la loro vita di comunione con Lui e tra di loro. Qualcuno ha potuto asserire che il Vangelo non è un resoconto delle parole e delle azioni di Gesù, ma la descrizione della sua comunione di vita con i discepoli. Ciò spiega - soprattutto in Marco - la cura con cui Gesù è tutto intento a formare la comunità dei Dodici. E' interessato a trasmettere, a far loro assimilare il contenuto del Vangelo, ma soprattutto a legarli a sé perché vivano come Lui e assumano il suo spirito di servizio.
Il testo di oggi riporta l'istruzione che Gesù offre loro durante il cammino. Il contenuto di tale insegnamento è un evento tragico, che però avrà un esito straordinario: "Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà". E' il secondo annuncio della passione-risurrezione. I discepoli lo hanno già riconosciuto come il Cristo.. Gesù però vuole educarli ad accettare la sua identità di Messia sofferente, che non salva col potere e col successo, ma con l'amore ostinato e fedele fino al dono di sé nella morte. La loro reazione - come era avvenuto in risposta al primo annuncio della passione (Mc 8, 31-33: cfr. scorsa domenica) e così sarà ancora di fronte al terzo (Mc 10, 32-41) - è di incomprensione. Anzi, "avevano timore di chiedergli spiegazioni". E' un tasto che non vogliono toccare e neanche desiderano capire.... La loro mentalità, la loro logica, la loro visione della vita sono infatti lontane anni luce da quella di Gesù. In effetti fanno sogni di grandezza e, lungo la strada, discutono di problemi di precedenza. Gesù li smaschera apertamente quando si trovano insieme in casa ed essi tacciono pieni di imbarazzo.
"Allora, sedutosi", nell'atteggiamento del Maestro che si appresta a impartire una lezione, "chiamò i Dodici": quasi una nuova vocazione, come aveva già fatto quando li aveva inviati in missione (Mc 6,7). Segno che quanto propone è essenziale e decisivo per la loro identità e vita di discepoli: "Se uno vuole essere il primo sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti". L'antitesi fortissima di "primo-ultimo" - che in tale forma si registra soltanto in questo testo di Marco - mostra come i rapporti vengano semplicemente capovolti, rovesciati. Il "primo" su ogni piano (familiare, sociale, politico, ecclesiale...) va a finire all'ultimo posto per una sua libera scelta: "ultimo" rispetto a "tutti" e "servo" di "tutti". E' l'umiltà più radicale, legata al servizio. Il "servo (=diaconos)" di per sé indica colui che serve a tavola. Il termine esprime un servizio concreto. Si tratta di uno che opera in favore degli altri. Vale a dire, non considera gli altri come oggetti o strumenti per raggiungere i propri intenti, come cose che - una volta usate - si buttano. Non si serve degli altri, ma si mette a disposizione, a servizio degli altri. Esiste e agisce per gli altri.
Gesù indica, così, il suo progetto di Chiesa, la fisionomia profonda che deve avere la sua comunità. Di fronte allo spettacolo di gente che nella società dà la scalata al potere e al successo- senza risparmio di colpi -, i discepoli avranno uno stile di rapporti radicalmente diversi. Ogni ruolo di responsabilità è un servizio e deve essere svolto come tale.
Gesù rafforza la sua dichiarazione con un gesto simbolico molto eloquente. "Preso un bambino, lo pose in mezzo" e poi lo "abbraccia". Il bambino è simbolo di chi non conta nella società, non produce e per di più disturba anche. Ecco chi vale di più. Ecco a chi bisogna dare un'attenzione preferenziale, imitando e condividendo l'amore di Gesù per i "bambini" e per coloro di cui essi sono simbolo: occorre "abbracciarli", facendo sentire loro tutto l'affetto, come fa Gesù. Si tratta di accoglierli: "Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me". Gesù si identifica con chi è senza prestigio, debole, indifeso. Ecco chi deve contare per i discepoli, ecco chi accogliere - sapendo di accogliere Gesù stesso- invece che perdersi in problemi di precedenza, in giochi arrivistici e in manovre di ambizione.
Il bambino diventa quindi simbolo di chi serve all'ultimo posto (in definitiva Gesù) e simbolo degli ultimi nei quali si serve il Signore stesso.
Nelle forme più varie in cui si pratica l'accoglienza, anzi si è accoglienza verso i piccoli e i bisognosi; nella misura in cui si fa spazio, anzi si è spazio per loro nel proprio cuore, accade un fatto straordinario la cui portata si può capire solo nella luce della fede: ogni volta è Gesù che sperimenta tale accoglienza e attraverso di Lui è Dio stesso, il Padre, che riceve tale dono, tale servizio. "Chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato". "Servire" il "bambino" è servire Dio stesso e cosa ci può essere di più grande?
Si vive, così, la vera sapienza che, nello spirito delle Beatitudini, costruisce la pace e la concordia dentro la comunità cristiana (Gc. 3,16-4,3; II lettura).
Gesù, richiamando l'attenzione sul "bambino", ci ricorda anche un criterio fondamentale per la vita sociale: tutto ciò che promuove la crescita armonica del bambino si risolve in vantaggio dell'intera società. Tutto ciò che danneggia il bambino finisce per logorare la società e portarla alla rovina.

Ogni domenica anche noi, come i discepoli - nella sosta di riposo dalla fatica del cammino - ci ritroviamo "in casa" con Gesù e ci lasciamo educare da Lui allo spirito di servizio e di comunione. Così, possiamo ripartire dalla celebrazione con una capacità nuova e una decisione nuova di essere "l'amore che serve".