Omelia (19-11-2003)
padre Lino Pedron
Commento su Luca 19, 11-28

Il regno di Dio è concepito come un mondo superiore che fa irruzione in quello dell'uomo sconvolgendolo e rinnovandolo. Alcuni ritenevano che tale manifestazione incombesse da un momento all'altro, addirittura in concomitanza con l'arrivo di Gesù a Gerusalemme: in quello stesso istante. Per togliere una tale tensione nei suoi discepoli Gesù racconta questa parabola.

Il nobile personaggio della parabola indica Gesù che sta per recarsi in un paese lontano, ossia in cielo. Di là egli ritornerà con potenza e onore di re. Per il tempo della sua assenza egli affida i suoi beni ai suoi servi affinché li facciano fruttare. Il tempo che intercorre tra l'ascensione di Gesù al cielo e il suo ritorno nella gloria, è tempo di lavoro e di imprese missionarie.

Durante la sua assenza i suoi nemici non si danno pace. Essi fanno di tutto perché non venga il suo regno (cfr Lc 11,2). Ma Gesù verrà nello splendore della sua dignità regale; tuttavia questo non succederà "da un momento all'altro" (v.11).

Al suo ritorno Gesù domanderà conto dell'amministrazione affidata ai suoi servi. Come ricompensa del loro fedele servizio, anche i discepoli parteciperanno alla sovranità di Cristo (Lc 12,43; 22,30).

Le amare osservazioni che il servo malvagio e fannullone fa contro il suo padrone sono la manifestazione della sua cattiva coscienza. Il Signore viene accusato di essere un padrone crudele, un trafficante ingordo, un egoista senza riguardo per nessuno. Secondo queste parole sarebbe stato proprio il Signore a togliere ogni coraggio e a mettere addosso al suo servo un tale terrore paralizzante.

Quello che il Signore domanda è fedeltà nell'amministrazione, attività coraggiosa, lavoro oculato. Per questo non è concepibile un'attesa inoperosa e piena di paura. Il capitale che ci ha dato non serve per arricchire davanti agli uomini, ma davanti a Dio; farlo fruttare non significa accumulare con avidità, ma dare con generosità (cfr Lc 12,13ss; 16,1ss). Questa parabola illustra la scelta giusta operata da Zaccheo: ha fatto fruttare i suoi averi dandoli ai poveri. Il vero guadagno che ci arricchisce davanti a Dio (cfr Lc 12,21) consiste nel donare. E' l'unico modo di investire; ci dà il nostro vero tesoro (cfr Lc 12,33) e ci procura amici che ci accolgano nelle dimore eterne (cfr Lc 16,9). La salvezza è un premio e come tale è insieme dono e conquista, incontro tra la benevolenza di Dio e la libertà dell'uomo. Il premio è sproporzionato al merito, come una città rispetto a una "mina". Una "mina" greca d'argento corrispondeva allo stipendio di trecento giornate lavorative.

Fuori parabola, Dio ci dona "molto più di quanto possiamo domandare o sperare" (Ef 3,20): ci dona se stesso. Tutto è dono suo, noi stessi e le nostre azioni.

La paura di Dio è tipica di Adamo (Gen 3,10) e dei suoi discendenti. Essa deriva dall'immagine di un Dio cattivo, che non ci ama. Questa paura blocca l'azione dell'uomo. L'uomo "religioso" considera Dio severo e intransigente. Il suo comportamento da uomo "giusto" è mosso da un'estrema difesa da Dio, nella ricerca parossistica di chiudere il conto in parità. Ma ciò non è possibile. L'unica via d'uscita è la gratitudine per la gratuità del dono.

Il v.27 è un'immagine truculenta per presentare la dannazione eterna. E' la sorte di chi rifiuta la vita di Dio.